Semmai vi dovesse capitare di finire al centro di un’inchiesta giudiziaria, badate bene a quali troupe televisive decidete di far entrare in casa vostra, perché potreste ritrovarvi come Michael Peterson e subire oltre che un danno, la beffa!
È il 2001 e la moglie di Peterson, Kathleen, viene ritrovata morta in fondo alle scale della loro casa nella Carolina del Nord. È il marito stesso ad avvisare i soccorsi ma, come solitamente accade, le autorità lo ritennero colpevole, accusandolo di averla picchiata a morte per motivazioni che saranno successivamente -e presumibilmente- rintracciate.
Certo della sua colpevolezza agli occhi della giustizia, Peterson accettò la proposta di un documentarista francese, il quale era intenzionato a mostrare integralmente il sistema di giustizia penale americano, spesso e volentieri discutibile e ambiguo. Jean-Xavier de Lestrade era da poco premio Oscar con il suo documentario Murder on a Sunday Morning, e per i 15 anni successivi s’immerse con tutta la sua équipe nelle dinamiche di uno dei processi più lunghi nella storia della Carolina del Nord.

Il documentario ha ripercorso tutte le fasi attraversate dall’imputato e della sua famiglia, in quegli anni così densi di incontri strategici, aule di tribunale e prove controverse. Il risultato è stato un lungometraggio accolto con recensioni positive e premi, acclamato anche dal The New York Times come un film “brillantemente concepito, riportato, filmato e ambientato”, capace di aver raccontato in modo dettagliato e accurato una storia che è riuscita a lasciare il pubblico con un plateale dubbio sul coinvolgimento di Peterson.
Anche dopo l’annullamento del verdetto nel 2011, Lestrade era nuovamente sul posto per aggiornare il documentario con i nuovi sviluppi del processo, che, in un primo momento, aveva portato alla sentenza di ergastolo nel 2003. Dopo aver constato che uno dei principali testimoni dell’accusa avesse dichiarato il falso, nel 2011 appunto, il caso è stato riaperto e nel 2017 Peterson ha deciso di presentare una richiesta di Alford per una riduzione della pena come omicidio colposo.
Nonostante, quindi, il finale risvolto dei fatti, la richiesta di Alford non stabilisce una certa colpevolezza, trattandosi di una dichiarazione sancita dai tribunali statunitensi che permette all’imputato di accettare la propria colpa, riconoscendo che l’accusa ha prove sufficienti per ottenere la condanna, ma non ammettendo di aver commesso effettivamente il crimine.
E forse, quest’ultima visione dei fatti, è l’unico punto in comune che la nuova serie di HBO ha con il documentario da cui sostiene di aver tratto ispirazione, ovvero l’indefinibile proclamazione di come sia morta Kathleen. The Staircase, la serie creata da Antonio Campos, non pone infatti un punto sulla risoluzione di questo evento doloroso, così come è accaduto nella realtà, ma non rappresenta neanche fedelmente le vicende avvenute, anzi, a detta del regista francese, del protagonista della tragedia e della sua famiglia, le distorce.

Che le intenzioni fossero quelle di romanzare e drammatizzare la storia portata in televisione dal documentario, questo era stato dichiarato fin da subito; ma che gli eventi potessero essere manomessi e sfruttati a favore di camera, non era stato esplicitato.
Lestrade racconta di come si sia affidato all’interesse del nuovo regista di riadattare la vicenda ad un dramma televisivo, inserendo nella trama anche la circostanza del documentario per inquadrare uno dei mezzi “con cui ci siamo avvicinati alla realtà”. Il documentarista non ha perciò richiesto le sceneggiature o un concreto coinvolgimento nella produzione della serie, nonostante figuri come co-produttore esecutivo, e ha anzi dato a Campos la possibilità di accedere ai suoi archivi e alle sue informazioni raccolte durante gli anni del processo, lasciandolo libero di girare la serie come meglio credeva.
Imparando così -anche a spese di Peterson- a non fidarsi di altri registi alla cieca.
“Una serie su HBO come questa, riceverà grande attenzione. E se le persone pensano che ciò che stanno guardando sia vero, per noi è davvero dannoso. […] Antonio è un regista molto talentuoso, ma in questo caso, ha fatto qualcosa di sbagliato.” Le parole di Lestrade su Vanity Fair non lasciano spazio all’interpretazione: le puntate non rispecchiano il vero, una in particolar modo. Stando alle affermazioni del regista e del suo team, infatti, la quinta puntata è quella che ha maggiormente modificato gli eventi, facendo credere al pubblico che durante il montaggio del documentario alcune parti fossero state smussate per favorire un sostegno all’imputato.
Centrale per queste mitigazioni è stata la figura di Sophie Brunet, editore e addetta al montaggio del documentario originale, che avrebbe intrattenuto una relazione con Peterson, andando -per questo motivo- a modificare il prodotto finale. Nonostante la relazione sia avvenuta davvero, si è svolta precisamente dopo che il documentario venisse trasmesso, ma questo era chiaramente un dettaglio che Campos non ha ritenuto rilevante.
Se Lestrade ha letteralmente affermato di sentirsi “tradito”, come in un circolo vizioso, anche Peterson ha accusato il regista francese di aver sfruttato lui e la sua famiglia, vendendo l’intera storia, correlata di informazioni importanti, e permettendo al nuovo regista di manometterla e contraffarla a suo piacimento; uscendone oltretutto illeso, con una serie trasmessa in una delle più importanti reti statunitensi e adescando il pubblico con Colin Firth come protagonista.
Il vincitore della causa? Sicuramente Antonio Campos.
Grazia Battista