
L’intervista è tratta dal libro “L’e donne del cinema italiano- Cento anni (e più) di dive senza tempo”, di Domenico Palattella, 2021 Dellisanti Editore.
Quando mi si è paventata l’occasione di poter intervistare Antonella Lualdi, una delle dive e delle attrici italiane più importanti della storia del nostro cinema, ho subito colto la palla al balzo. Già perché la Lualdi è stata diva indiscussa degli anni d’oro del cinema italiano, è stata diva indiscussa di un’Italia che ancora sapeva sognare.
La Lualdi è stata una delle donne italiane di maggior successo, una delle più copertinate, una delle più apprezzate all’estero; eppure ha saputo sempre mantenere un’umiltà, non parimente riscontrabile in altre sue illustre ed acclamate colleghe dell’epoca. Mi sorprende di questa donna, la sua assoluta disponibilità, nel raccontarsi, di fronte ad un giovane critico cinematografico come me, senza fronzoli, senza divismi, ma con la semplicità e l’eleganza che l’hanno sempre contraddistinta. Ho scoperto quindi, una gran donna, ancora giovane nell’animo e sempre sincera nei suoi racconti intrisi di cinema, quello con la C maiuscola.
I. Signora Lualdi, mi può dire qualcosa dei suoi esordi e dell’incontro della vita, ovvero quello con Franco Interlenghi?
Nella storia del cinema italiano ci sono dei film che hanno raccontato il nostro Paese, ad esempio Sciuscià (1946), di Vittorio De Sica, interpretato da Franco Interlenghi, ovvero colui che sarebbe diventato poi, mio marito. Questo film raccontava l’Italia che usciva dalla guerra, ancora con le macerie in giro. Lo hanno girato in restrizioni economiche e fu il primo Oscar italiano della storia. In base a questo film, ci fu l’incontro tra me e mio marito. Perché proprio per Sciuscià ci siamo incontrati sui successivi set. A tal proposito, le racconto questo aneddoto: ero andata al cinema con una mia amica, dove stavano proprio proiettando Sciuscià. Ci dicevamo, io ero giovanissima, “andiamo a vedere questo film, magari sarà anche un film noioso, dato che parla ancora della guerra”. Andammo comunque a vederlo, perché poi un Oscar è sempre un Oscar. Durante la visione, ho cominciato a commentare il film con la mia amica. Dietro di noi c’erano un paio di ragazzi seduti, che ascoltavano le nostre conversazioni. Io non lo sapevo, e stavano ascoltando che dicevo “quant’è bravo quel ragazzo lì, ma guarda com’è espressivo, pensa che De Sica l’ha preso dalla strada”. Mi riferivo proprio al mio futuro marito. Combinazione volle che questi due ragazzi, erano amici di Franco Interlenghi, al quale avevano riferito gli apprezzamenti che avevo fatto su di lui. Io, in quell’epoca, muovevo i miei primi passi nel mondo del cinema, e qualche anno più tardi, dopo che avevo interpretato Signorinella (1949) e tanti altri film, ci chiamarono a lavorare insieme, perché separatamente eravamo i due attori giovani che stavano avendo più successo. Ricordo, il nostro primo incontro avvenne sul set di Canzoni, canzoni, canzoni (1953), dove eravamo protagonisti di un episodio di questo film prodotto da Carlo Infascelli. Lui era reduce dal successo de I vitelloni (1953), diretto da Federico Fellini; io avevo già all’attivo numerosi film tra cui Il cappotto (1952)di Alberto Lattuada. Sul set vedo in lui un interesse particolare nei miei riguardi e molta sicurezza. Evidentemente i miei complimenti fatti a lui, quella famosa sera al cinema, erano arrivati al suo orecchio. Quindi sapeva già tutto, sapeva di questo mio interesse, ma io non sapevo che lui sapeva. Io inizialmente ero piuttosto scettica, mi chiedevo “come mai mi dimostra tanta attenzione, per quale motivo, ma cosa vuole?”. Lo trattavo anche male, inizialmente, non volevo che mi corteggiasse, perché ero una ragazzina con dei sani principi: un’educazione alla pugliese e alla greca, perché mia madre era greca e mio padre era originario di Trani, all’epoca in provincia di Bari. E quindi io mi comportavo come sempre e anche peggio di sempre, nel senso che non cedevo al corteggiamento anche perché volevo capire le sue reali intenzioni. Comunque, posso dire che questo episodio è stato molto riuscito e hanno cominciato diverse volte a chiamarci per lavorare insieme. Quindi diciamo che è stato galeotto, dapprima quel Sciuscià e poi quel film di Domenico Paolella [n.d.a Canzoni, canzoni, canzoni] tanto è vero che poi due anni dopo, nel 1955, ci sposammo.
II. Lei è stata una delle figure femminili più importanti del nostro cinema. Alla luce di questo, quale è stata l’evoluzione del ruolo della donna nella sua pluriennale esperienza cinematografica e televisiva?
Il cinema, soprattutto all’epoca del mio successo cinematografico, aveva dei dettami ben precisi. In prima fila vi era sempre il ruolo maschile, soprattutto nel primo periodo; mentre la donna era utilizzata in ruoli da “maggiorata”. In questo c’è stata una vera e propria rottura dal vecchio stile dei “telefoni bianchi”, di quei film di moda nell’epoca fascista, tutti uguali e tutti rigorosamente “finti”. Ad un certo punto, Dino De Laurentiis, il produttore dei produttori insieme a Carlo Ponti, si era stancato di queste donne spogliate, che poi dobbiamo dire alcune si spogliavano “giustamente” diretti da registi d’autore. Da lì si coniò il termine di “maggiorata fisica”. Tra queste vi erano Silvana Mangano, Gina Lollobrigida, Silvana Pampanini, Lucia Bosè. Eravamo in quegli anni a cavallo tra 1949 e il 1950, quando De Laurentiis, aveva intenzione di cercare una donna diversa, semplice, acqua e sapone. Un’amica del produttore, che conosceva mia madre, pensò a me. Io ero proprio acqua e sapone, una ragazzina semplice. Mi chiese se avessi qualche fotografia da presentare a questo importante produttore. Ma io non ne avevo, i miei genitori a tutto pensavano, fuorché a farmi fare foto per il cinema. Lei mi disse, te le faccio io e le farò vedere a De Laurentiis. Quando il produttore ha ricevuto queste foto, disse “Si, è lei quello che cerco”. Mi chiamò. Chiaramente con mamma appresso, andammo agli studi e mi fece questo provino che andò benissimo. Io, impacciatissima com’ero, non sapevo nulla di recitazione. E’ proprio questo che volevano: una figura naturale e spontanea. Lui, De Laurentiis, mi lanciò come ingenua numero uno del cinema italiano. Tutto questo per dare un nuovo slancio alla figura della donna e togliere quell’immaginario di femme fatale e di maggiorata, che si era diffuso fino a quel momento. C’erano molte colleghe che si spogliavano, dando molto da fare alla censura, io invece ho dato una svolta nel senso opposto, quale ragazza di casa, di famiglia normale, ancorata alle tradizioni, con una educazione solida, con un comportamento poco esibizionistico. Le racconto un episodio: alle volte capitava sul set, di lavorare con Ave Ninchi, carinissima, con la quale avevo uno splendido rapporto. Mi diceva: “Ma vai lì, non ti bloccare”. E io dicevo “ma tutta questa gente, ma perché sta qui; devono andare via, io non faccio la scena con tutti questi qua”. Piano piano comunque mi sbloccai, il mio personaggio venne fuori, così come il mio stile interpretativo, ovviamente maturando come attrice ho imparato tante cose e poi comunque ero vera. Non ero il risultato di una scuola di recitazione o di Actors Studios, come molte colleghe hanno fatto. Io mi sono trovata catapultata sui set cinematografici, senza sapere niente. Però ero molto naturale. A me bastava mi dicessero che scena recitare, farmi leggere il copione e il primo ciak era quello buono. Il secondo ciak, eventualmente, era meno buono e questo vuol dire che regalavo tanta spontaneità alle mie interpretazioni. Avevo una spontaneità che è piaciuta e poi siamo piaciuti anche insieme, io e mio marito.
III. Lei ha lavorato con i più importanti cineasti nazionali, da Bolognini a Maselli, da Scola a Monicelli e potremmo ancora continuare. Con quale di questi maestri del cinema si è trovata particolarmente a suo agio?
Io e Franco abbiamo abbracciato il pubblico nel suo totale, piacevamo un po’ a tutti, ed è stato un periodo bello e fortunato. Ci volevano un po’ tutti bene, pensi che i nostri amici erano i vari Pier Paolo Pasolini, Carlo Lizzani, Giuliano Montaldo, Mauro Bolognini, con quest’ultimo abbiamo girato tre film (Gli innamorati, Giovani mariti e La notte brava), insomma, avevamo intorno tutt’un gruppo di intellettuali che partecipavano con noi alla magia del cinema. Ne La notte brava, ad esempio, ero ben contenta di interpretare una parte diversa. Ero infatti, una prostituta, vestita in abiti succinti e con un trucco chiaramente pesante. Fu per me una piacevole novità, ero stanca di fare l’ingenua. Sa, al 1959, l’anno in cui abbiamo girato questo film, ero moglie e anche madre, quindi dissi basta con questi ruoli da ingenua. Cercavo qualcosa di più scabroso, di più rilevante, di più elaborato, anche per uscire dal classico cliche. Ad esempio anche l’esperienza francese, in tal senso, mi ha dato molto dal punto di vista professionale. Come anche nel film di Maselli, dal titolo I delfini, dove faccio la sorella di Gerard Blain. Una parte piuttosto spregiudicata, in questa pellicola che è un amaro ritratto dell’alta borghesia della provincia italiana dei primi anni ’60. Maselli poi era un grande regista e cercava sempre di approfondire le cose, mettendo in evidenza la provincia e tutti i peccati e le meschinità che si annidavano intorno ad essa. Insieme a me, c’erano altre attrici di grande livello come Claudia Cardinale, Anna Maria Ferrero, e poi c’era anche Tomas Milian.
IV. Poi lei, con suo marito ha lavorato anche in ‘Padri e figli’, film di Monicelli, che anticipa in parte le tematiche realistiche e sociali della commedia all’italiana. Mi può dire qualcosa di più di questo film?
Si, ho lavorato in accoppiata con mio marito nel film episodico di Padri e figli, diretto proprio da Mario Monicelli. Interpretavo la parte di una giovane moglie in cinta di due gemelli, mentre mio marito era mio marito anche nella finzione scenica. E’ la storia delle piccole difficoltà di una giovane coppia appena sposata. Lui non voleva lavorare con mio padre, poi si convince perché ha una famiglia sulle spalle. Tutto in linea, con le concezioni familiari tradizionali dell’epoca, che poi dovrebbero essere anche quelle d’oggi, ma purtroppo non sempre è così.
V. Cannes, Venezia e Berlino. Lei ha varcato, da protagonista, negli anni d’oro del nostro cinema, il Red Carpet di tutti e tre i maggiori festival internazionali. Ce ne può parlare, brevemente, ricordando la magia di quei momenti?
A Berlino ricordo di esserci andata proprio per Padri e figli, e a Venezia per I delfini. A Cannes ci andai invece nel 1959 per il film italo-francese A doppia mandata di Claude Chabrol, personaggio incredibile, peraltro, in quel film, recitai con Jean-Cloud Belmondo. In quel triennio a cavallo dei due decenni, mi trovai quindi ad essere ospite a tutti e tre i grandi festival mondiali. A Cannes, in particolare, mi ricordo che ci furono numerosi incontri regali. Venne il Re Umberto di Savoia, regnante italiano spodestato da qualche anno, che posò per una copertina di Oggi, con me e mio marito e con nostra figlia, Stella. Devo dire, grazie al cinema, non mi sono neanche resa conto di quante possibilità ci sono state e di quante soddisfazioni ho avuto. Mi mandavano spesso sia in Italia che all’estero, proprio perché c’era tutto un sistema di propaganda del cinema italiano nel mondo, che funzionava e del quale noi, dico come attori principali, ne facevamo parte e ci andavamo volentieri. In Brasile, in Grecia, in Giappone e quindi, insomma, abbiamo avuto una vita molto bella e molto fortunata, anche e soprattutto grazie al cinema.
VI. Il ruolo o i ruoli della vita, quelli che rimangono indelebili nei suoi ricordi, alla luce delle oltre 80 pellicole che lei ha interpretato nel corso della sua carriera.
Devo dirle che io non ero selettiva e non ho mai diviso le pellicole in Serie A e Serie B, è una divisione che sento ancora oggi e che ho sempre rifiutato. A me è sempre piaciuto il film in base al personaggio che mi proponevano e poi mi affezionavo a quello stesso personaggio. Forse come importanza potrei dirle La notte brava, perché avvertivo quel personaggio, come un segno di cambiamento, come una possibilità di fare qualcosa di diverso, con un regista “impegnato”, che mi conosceva bene, ovvero Mauro Bolognini. Anche I cento cavalieri, di Cottafavi, era un bel film. Ce ne sono stati tanti, non è facile scegliere, ma certamente ci sono alcuni film, che per svariate ragioni, rimangono nel cuore più di altri. Mi trovavo comunque tanto a mio agio sia nei film impegnati di Bolognini ad esempio, che in film leggeri come E’ arrivato l’accordatore. Nella vita, come in tutti i campi, i piacevoli ricordi dipendono sempre dall’armonia con il quale si fa un lavoro. Molti erano snob, rifiutavano magari un film perché non era con un regista impegnato. Molti facevano così. Certi attori importanti non accettavano ruoli che non fossero “alti”. Io invece passavo da Bolognini, ad altri registi meno conosciuti, con i quali però facevamo bei prodotti, onesti, sinceri e semplici. Più che il film impegnato, un set ti lascia un buon ricordo se c’è alchimia con il regista, con la troupe e con i colleghi e allora lì viene fuori un’esperienza bella, che poi ti porti per tutta la vita. Un altro film che mi ha portato molta bella critica su Le Monde è Le rouge et le noir (1954), tratto dal libro di Stendhal e editato in Italia come L’uomo e il diavolo. In questo film il mio partner maschile era Gérard Philipe, il massimo degli attori belli dell’epoca. Su questo giornale francese, che poi è ancora oggi uno dei più importanti e riconosciuti a livello mondiale, mi scrissero una critica stupenda, dicendo che se Stendhal fosse stato ancora in vita, si sarebbe innamorato della mia Mathilde de la Mole. Fu per me una grande soddisfazione, perché non capita tutti i giorni e poi in una terra, come quella francese, che professionalmente e personalmente, mi ha dato tanto.
