Tra i comici che ottennero onori e successo nella rivista, spicca la figura di Macario, considerato a tal ragione “il re della rivista”. La trasposizione di queste, sulla prima rete nazionale, nel 1978, ci restituisce la magia delle scintillanti riviste dell’attore torinese. Quell’anno andò in onda sulla prima rete nazionale, un programma in sei puntate dal titolo “Macario più”, show studiato e realizzato per festeggiare i 50 anni di spettacolo del 76enne artista torinese. Si trattava di una precisa e puntuale antologia di tutta la lunghissima esperienza teatrale di Macario. Questa riprendeva le riviste di maggior successo dell’attore, che grazie a quella incisione televisiva, non solo sono arrivate ai giorni nostri, ma rappresentato dei documenti visivi dal valore inestimabili, restituendo alle moderne generazioni un pizzico della magia di un genere oggi estinto. Per l’occasione l’attore volle al suo fianco quelle che lui chiamava “le mie puledrine”: Sandra Mondaini, Marisa Del Frate e Rita Pavone, riproponevano per l’occasione i loro vecchi spettacoli o sostituivano le soubrette di un tempo. La cavalcata dal gusto un po’ rétro del docu-programma, si rivelò azzeccata: il colore, ormai entrato nella maggior parte dei piccoli schermi, attribuì il giusto risalto alle lussuose scenografie dei suoi cavalli di battaglia e alla bellezza delle ballerine. Il resto lo faceva lui, l’attempato ma sempre valido direttore d’orchestra, amatissimo dalle sue donnine. Disse di lui a tal proposito, Sandra Mondaini: “Candido sul set e severo padre di famiglia dietro le quinte: a Macario devo tutto, fu lui ad insegnarmi i trucchi del palcoscenico”. Ancora, Vito Molinari, regista del remake delle deliziose riviste di Macario: “Di solito, quando mi ritrovavo a lavorare in televisione insieme a grandi interpreti del teatro e del cinema, operavo degli stacchi di telecamera in funzione delle loro caratteristiche e non viceversa: è quasi impensabile che un grande attore cambi il proprio modo di recitare in funzione della presenza o meno della macchina da presa. Con Macario invece era diverso: la sua particolare sensibilità scenica faceva sì che gli venisse assolutamente spontaneo capire a quale telecamera rivolgersi di volta in volta per fare un sorriso o per proporre una battuta”.

Le sei riviste riproposte furono nell’ordine: “Febbre azzurra”(1945), “Follie d’Amleto”(1947), “Le educande di San Babila”(1948), “Oklabama”(1949), “E tu biondina”(1956) e “Chiamate Arturo 777”(1958). “Febbre azzurra” fu il più grande successo del Macario attore di rivista e probabilmente la migliore commedia della storia della rivista. L’opera riscosse un successo epocale e venne parecchio enfatizzata dai critici e dai giornali dell’epoca con l’ormai abituale locuzione “senza precedenti”. L’incasso complessivo di “Febbre azzurra”, giusto per far capire il suo epocale successo, risultò addirittura superiore a quello del contemporaneo esordio alla Scala di un’opera lirica di gran nome. La rivista è ricca di doppi sensi, emblema della vecchia e cara rivista assopitasi durante il conflitto mondiale e risorta con tutti i fasti nell’immediato dopoguerra. Nel caso di “Febbre azzurra”, ad esempio, ciò che dava il titolo alla piéce era la ninfomania, che nell’isola tropicale di Funi-Funi si manifestava con tre starnuti. Due anni più tardi, per la stagione 1947 Macario propone “Follie d’Amleto”, rivista dalla trama consistente, ispirata al celebre testo shakespeariano, riscritto parodisticamente per l’occasione. Quello di Amleto, in chiave parodistica, sarà un personaggio molto caro all’attore torinese, che lo riproporrà anche per il cinema in una sfortunata versione, dal titolo “Io, Amleto”(1952). Con questa rivista, le battute a doppio senso erano praticamente raddoppiate e Macario si rivelò a tutti gli effetti un maestro del “dico-non dico”: certi irriverenti bisticci di parole gli erano permessi e concessi, e anzi riscuotevano anche il gradimento delle tante signore sempre presenti in sala, proprio per la levità e la grazia con le quali se li lasciava quasi impunemente sfuggire dalle labbra. E siccome il successo era davvero stratosferico, Macario decise di puntare ancora più assiduamente sullo sfarzo e sul lusso di scenografie faraoniche e mastodontiche. Così nacque “Oklabama”(1949), una rivista cui il costo degli allestimenti superava i 60 milioni di lire, con un’impennata considerevole anche del compenso degli attori e delle soubrette. Si assisteva insomma a una vera e propria gara verso le vette dello sfarzo, con macchinari che ricordavano le magie delle scenografie seicentesche. La grande rivista stava vivendo il suo periodo di massimo splendore; il modello da imitare era Broadway, contenitore d’oltreoceano che accoglieva soubrette, danzatori neri, ballerine sudamericane, coreografie viennesi e orchestre jazz. I testi di quel periodo erano tutt’altro che pretenziosi, anzi indulgevano forse un po’ troppo al disimpegno: poche le battute politiche, rari i riferimenti all’attualità, scarse le critiche al costume. Ma si rideva, eccome se si rideva! Macario in particolare, grazie alla sua verve e alle sue “donnine” che si portava appresso, continuava imperterrito a far trascorrere momenti spensierati alle migliaia di italiani che facevano la coda per accaparrarsi un biglietto per i suoi spettacoli. I nonni che gli avevano a suo tempo decretato i primi successi, i padri che grazie a lui avevano evitato le pozzanghere e i figli che cercavano un’alternativa al cinema rimanevano sempre affascinati quando dalla bocca di questo “animale del palcoscenico” fuoriuscivano bisticci di parole, discorsi sconclusionati e sostantivi storpiati. Quanto mai illuminante il giudizio del critico cinematografico Morando Morandini sull’ennesimo trionfo attribuitogli dalle platee: “Quando Macario entrò in scena, sembrava di essere al Festival di Sanremo. Mancava soltanto il metronomo: un applauso di 73 secondi”.


Anche le riviste degli anni ’50, registrano un successo stratosferico, nonostante le vette di massima presenza al cinema, siano raggiunte nel 1955 e nonostante, proprio a metà anni ’50, la televisione si stava espandendo sempre di più. Macario continua, da acclamato “re della rivista” a mietere trionfi senza precedenti. Nel 1956 l’attore è nei più importanti teatri d’Italia, con “E tu biondina”, la storia ambientata nel 1859, di due saltimbanchi Felice e Mammola, che finiscono in un complotto per impossessarsi dei piani dell’arciduca Ottone. Vengono scambiati per traditori e condannati alla fucilazione, ma vengono salvati in extremis dal tenente Fritz, che loro avevano conosciuto e aiutato in precedenza. Sia nella riduzione televisiva, che nell’originale che girava le platee d’Italia, il ruolo della co-protagonista femminile era interpretava dalla simpatica ed irresistibile Sandra Mondaini: l’ennesima scoperta di Macario, il cui fiuto per i giovani talenti andava sempre più affinandosi. Un aneddoto curioso, ci testimonia la tenacia di quella che sarà una grandissima donna dello spettacolo; e l’umanità di un direttore d’attori, serio, ma comprensivo con i suoi collaboratori. Sandra, 25 anni appena compiuti ed una corporatura minuta e leggiadra, non amava molto la parata finale, e in una delle tante repliche di “L’uomo si conquista la domenica”(1955) accusò senza tanti giri di parole il capocomico di preferire la soubrette Flora Lillo, veterana delle riviste di Macario, a lei, mettendosi a piangere dietro le quinte. Macario, sorpreso e imbarazzato, la prese sottobraccio come un padre che conduce la figlia all’altare e le fece fare passerella al suo fianco, davanti alla Lillo. In più, questa grande attenzione, da scrupoloso padre di famiglia che il direttore d’attori Macario, aveva nei confronti delle soubrette e degli altri giovani della sua compagnìa, si verificava anche e soprattutto in scena. Era sempre pronto a coprirli, a difenderli e ad aiutarli. Se qualcuno dei suoi attori dimenticava una battuta, Macario si divertiva a fungere da palese suggeritore e a colmare ad alta voce la lacuna altrui, riuscendo così a trasformare una situazione incresciosa in un non preventivato momento di ilarità; se un altro sbagliava i tempi, Macario interrompeva platealmente la recita invitando il malcapitato a tornare indietro e a far mente locale sul suo errore. Questi ubbidiva, e la scenetta si riavviava tra le risate generali. Le mani del comico, leggere come farfalle, sembravano quelle di un pianista immaginario che nell’aria cerca la tastiera, rincorre le note, descrive le melodie. Il viso perennemente infantile, i sorrisi che sapevano di colpevolezza, la recitazione volontariamente inceppata qua e là, la voce bigia e il fantasioso spirito di imitazione avvicinavano l’affermato attore alla più completa caratterizzazione dei migliori comici italiani. Macario era davvero unico nel dettare il ritmo comico con i soli silenzi e le pause, entrambi dettati dall’istinto e dal senso del tempo proprio di un alchimista che si diletta con le cadenze della recita e il linguaggio universale del teatro. Il pubblico non rideva soltanto per le sue brillanti battute, ma anche per le sue immotivate e improvvise interruzioni recitative. Pause lunghissime e interminabili tra una facezia e l’altra, arricchite di piccoli gesti, impercettibili sguardi, strani tic e da curiosi movimenti delle palpebre. E il coraggio non mancò mai al sommo commendatore Erminio Macario, quasi sempre gli andò bene, anche quando l’azzardo superava le più rosee previsioni. Infatti, in epoca in cui la rivista era stata pressocché assorbita dalla televisione, l’attore prese la decisione di ripresentarsi sulla scena con una rivista vera e propria, ovvero la riedizione di “Febbre azzurra”, esattamente venti anni dopo. Quell’annata del 1964/65, veniva dopo che, dal ’61 al ’63, Erminio aveva dedicato il triennio quasi completamente al cinema, ritornando in auge dopo alcuni anni di pausa. Nella versione moderna “Febbre azzurra (vent’anni dopo)” aveva subito una spolverata al dialogo, una verniciatina agli spartiti e una limatina al linguaggio per renderlo un po’ più attuale. Il debutto milanese fu quanto mai fortunato: il pubblico tributò tutto il suo consenso per la prova del comico e delle sue affascinanti “donnine”. La scelta di Macario, non c’è che dire, si dimostrava come al solito piuttosto coraggiosa: ci voleva molta fede in se stessi per proporre, come alternativa al dilagante genere della commedia musicale, una vecchia rivista di cui egli era, oltre che attore e titolare della compagnia, anche l’impresario. Con l’entusiasmo e lo slancio del debuttante, Erminio investì nello spettacolo quasi tutte le proprie risorse finanziarie, e i risultati gli diedero ragione: anche al Teatro Sistina di Roma, il “tempio” della commedia musicale gestito dalla coppia Garinei e Giovannini, il tutto esaurito divenne regola. Il pubblico dimostrò di apprezzare moltissimo il singolare ritorno alle origini da parte dell’esperto attore dal ciuffetto brillantinato e il rossetto sulle gote, il quale, fra sberleffi e mossette, malgrado le rughe, vinceva tutte le sere l’ennesima scommessa. Vent’anni prima la commedia debuttava nel contesto di un’Italia uscita a pezzi dal conflitto bellico; ora debutta nuovamente in un contesto economico favorevole e in un ritrovato benessere sociale, figlia della democrazia tanto cercata e agognata. Tanti stravolgimenti c’erano stati in vent’anni di storia patria, quello che non cambiò invece, fu il successo di Macario: come vent’anni prima infatti, le platee di ex giovani ora genitori e di adulti ormai nonni seguitavano a stravedere per quello stuolo di femmine sempre avvenenti e per il loro immutabile regista che sembrava irridere alle leggi del tempo continuando a proporre un divertimento intrinsecamente un po’ datato, ma comunque assai gradito dal pubblico.

Domenico Palattella