La coppia Fabrizi-Peppino

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Negli anni del dopoguerra, con il rinnovato benessere economico e con l’exploit del cinema brillante nazionale molti rapporti lavorativi, sfociarono in sodalizi artistici, più o meno riusciti e più o meno duraturi. Se il più celebrato è quello tra Totò e Peppino De Filippo, viceversa il sodalizio artistico più corposo sarà quello formato da Aldo Fabrizi e Peppino De Filippo, interpreti di 18 pellicole tra il 1943 di “Campo de’ fiori” e il 1965 di “Made in Italy”. Entrambi non erano dei caratteri facili, questo è risaputo, ma avevano grande stima reciproca l’uno dell’altro. Fabrizi, in particolare, era molto più burbero nella vita privata che nella finzione del set. Una personalità, sia chiaro, non avara di sentimenti, era capace di amore ma anche di incolmabili distanze, di slanci, di ritrosìe, di generosità e di pervicaci insofferenze. Certo è, comunque, che il rapporto con Peppino, non sarebbe stato così lungo, anche dal punto di vista artistico, se non fosse stato arricchito da una sincera amicizia. Non che i due, si vedessero o sentissero ogni giorno, potevano passare anche mesi senza scambiarsi una lettera o una telefonata, ma poi bastava un solo incontro, una sola fugace occhiata, affinché la magia di una concreta amicizia riprendesse il sopravvento. Peppino, al di là del carattere non facile, simbolo dell’animo dei De Filippo, era bensì una persona che si faceva amare, a tal proposito un ricordo di Aroldo Tieri ne delinea la sua essenza più profonda:

“Peppino? Un uomo adorabile, elegante nei modi e nell’animo. Un artista di grande intelligenza, oltre che un autore di farse e commedie tuttora di grande freschezza. Come comico il più grande. Lui era l’estro, la fantasia, l’invenzione. Nel camerino di Totò, dove si provavano le scene, le migliori gag erano le sue. Quando entrava in scena lui, gli altri sparivano. Eduardo compreso”.

Il rapporto tra i due, al di là delle classiche invidie, delle quali ad esempio ce ne fa testimonianza Massimo Fabrizi nel suo libro “Aldo Fabrizi, mio padre” (“Da buon accentratore, mio padre soffriva l’ombra degli altri e, quanto più gli altri erano grossi, tanto più il cono d’ombra era eclissante”), era anche un rapporto goliardico, ricco di scherzi atroci, atti a dimostrare un’amicizia davvero solida, che i comuni trionfi teatrali e cinematografici, non avevano scalfitto, bensì li aveva uniti, in un rapporto sincero ed onesto. Preziosa, a tal proposito, la testimonianza di Franca Faldini, compagna di Totò dal 1952 al 1967, l’anno della sua morte.

“Con Peppino e la moglie Lidia Martora, io e Antonio [n.d.r.Totò], abbiamo passato delle serate bellissime, ci siamo divertiti come pazzi a fare degli scherzi atroci ad Aldo Fabrizi. Fabrizi aveva il pallino delle donne, e allora regolarmente o io o Lidia, venivamo incaricate da Totò e Peppino di telefonargli e di fargli tutto un discorso…Loro stavano dietro e ci suggerivano, noi manifestavamo a Fabrizi la nostra ammirazione e gli davamo appuntamento. Almeno due volte Fabrizi è venuto a questi appuntamenti: noi donne siamo arrivate su una macchina, Totò e Peppino su un’altra, acquattati dietro, poi sono scesi e l’hanno sfottuto da morire.”

Ma anche Fabrizi in tema di scherzi non era da meno. Rese a Peppino pan per focaccia, quando si trovavano a Parigi, per puro svago. Era il 1954 e Fabrizi combinò un goliardico scherzo atroce all’amico Peppino, ricordato sempre con allegria dallo stesso attore napoletano. Fabrizi aveva riferito a Peppino di una bellissima donna, con la quale nella hall dell’Hotel George V dove alloggiavano, aveva stretto un colloquio amichevole. Lei aveva chiesto espressamente di conoscere il suo famoso e fascinoso collega italiano. A quel punto Peppino si era tutto ripulito e profumato come un bambino si era presentato al bar al cospetto di questa bellssima e seducente donna. Solo in un secondo tempo aveva scoperto che si trattava di Coccinelle, il famoso travestito parigino. Fra loro c’era complicità, cameratismo, c’era un rapporto umano, avevano vissuto delle cose insieme, periodi brutti, allegri, di preoccupazione: c’era insomma un rapporto di vecchi compagni di gioventù che si ritrovano. Lo stesso valeva con Totò, con Taranto o con Macario. Balzando sul lato più strettamente artistico, la coppia Fabrizi-Peppino funziona, perché tutti e due venivano fuori dalla Commedia dell’Arte e avevano dei tempi comici perfetti, imparati sulle tavole dell’avanspettacolo e nei teatrini di terz’ordine.

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Aldo Fabrizi e Peppino De Filippo in piazza Navona, sul set del film “I due compari”(1955).

Dei 18 film interpretati insieme, non sempre i due comici erano alla pari, in “Campo de’ fiori” Peppino aveva una parte secondaria, di spalla di lusso, insomma; mentre in “Ferdinando I, Re di Napoli”(1959) era Peppino il protagonista assoluto, con Fabrizi nella parte di un contadino che vende uova e capponi. Spesso però erano una coppia cinematografica a tutti gli effetti, e spessissimo erano proprio loro il vero motore del successo dei loro film insieme. La loro presenza in coppia, era anche sinonimo di sicuri guadagni per i produttori. L’anno mirabilis della coppia è il 1955, seppur abbiano già interpretato insieme altre pellicole. Quell’anno, così fioriero di film per l’industria cinematografica italiana, Fabrizi e Peppino interpretano ben 5 pellicole insieme (“I due compari”, “Accadde al penitenziario”, “Io piaccio”, “I pappagalli” e Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo”), film che incassano tra 150 e 450 milioni di lire e portano in sala oltre 2 milioni di persone. Il migliore dei cinque è proprio l’ultimo, “Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo”. I quattro del titolo sono rispettivamente Alberto Sordi, guardia severissima che fa multe a tutti e sogna la Francia, o perlomeno l’Alta Italia; Peppino De Filippo è la guardia scelta, che ha per la testa non il lavoro, ma soltanto ed esclusivamente la musica classica, se ne va infatti, in giro per Roma col suo enorme trombone in spalla; Aldo Fabrizi è il brigadiere, bonaccione e comprensivo con una figlia da maritare; Gino Cervi è, infine, il comandante della caserma, burbero, ma dal cuore d’oro. Il film, che è uno dei maggiori successi degli anni ’50, tratta, come avverte il titolo, dell’ennesimo film sulle disavventure, sulla vita privata e sulla sostanziale bontà dei tutori dell’ordine, nella scia di “Guardie e ladri” e dei “Pane e amore”. Ma i tutori di turno sono i vigili urbani, su cui si può scherzare con maggiore tranquillità. Il film è una serie di quadretti, di scenette di vita, e rispecchia e descrive molto realisticamente la società italiana dell’epoca, con i suoi orizzonti limitati e tranquilli: la moto, il matrimonio, la banda, il circolo ricreativo, il mito della Francia. Ma la vera ragion d’essere del film è tutta nello straordinario gioco di squadra dei quattro protagonisti, che si divertono e divertono dalla prima all’ultima scena. Quella della partita a carte nel circolo ricreativo è passata alla storia, ed è da antologia della risata. Peppino e Fabrizi sono quasi sempre in scena insieme e i loro duetti qui rasentano la perfezione. Se nella prima parte del film, Peppino tedia continuamente Fabrizi, nel rendere quest’ultimo partecipe dei suoi ultimi capolavori da compositore, finendo per plagiare Verdi, Rossini e addirittura l’inno americano; nella seconda è Fabrizi a prendere in mano il pallino e costringere l’amico a vestirsi da sposa, perché la figlia deve sposarsi e Peppino ha “più o meno lo stesso fisico”. A dir la verità non era male neanche “I due compari”, girato nell’estate del 1955 e uscito in autunno, ingiustamente poco ricordato. La pellicola è un tentativo non disprezzabile, anzi tutt’altro, di rilanciare Peppino De Filippo e Aldo Fabrizi come coppia comica autonoma, un pò sulla falsariga di Stanlio e Ollio. Il film è insomma, una farsa non priva però di serietà, di ripiegamenti patetici: secondo l’uso non soltanto del regista Carlo Borghesio, ma anche dello stesso Fabrizi. Senonché questo ripiegamento patetico della storia, finisce per punire un pò gli spunti comici del film, quasi tutti sulle spalle di un eternamente affamato Peppino (che napoletanamente, chiama “maccheroni” tutta la pasta ). La trama ricorda per certi versi quella di un classico di Frank Capra, “Signora per un giorno”(1933): un genitore povero che ha illuso la figlia di essere ricca, mantenendola a prezzo di mille sacrifici in un collegio esclusivo, si trova adesso a dover spiegare alla ragazza come stanno le cose in verità. Senonché nel film di Capra tutto filava miracolosamente liscio, e alla fine vinceva la favola. Quì invece la finzione viene bruscamente sospesa e sorpresa. Le cose, bisogna dire, vanno ugualmente a finire bene, ma non esistono miracoli e coincidenze eccezionali: soltanto un pò di buon senso da parte dei ricchi, estrema eredità del patto sociale neorealista. Certamente Peppino e Fabrizi erano già apparsi insieme in numerosi film, ma quì più che altrove si tenta di usarli come coppia fissa protagonista, come spalla uno dell’altro. Aldo e Peppino, il grasso e il cretino, ennesima riproposta all’italiana dei mitici Laurel e Hardy (fin dai titoli di testa le silhouette dei protagonisti definiscono le caratteristiche di partenza della coppia, potrebbero essere quelle di una qualunque comica di Hal Roach di fine anni ’20). Eppure i due attori in coppia, divertono e convincono, nonostante qualche insistenza patetica di troppo. I due compari del titolo, non sono altro che due poveracci, mezzi venditori e mezzi truffatori: Fabrizi richiama l’attenzione dei passanti parlando di un progetto di abolizione delle tasse, poi cerca di affibbiare loro penne stilografiche che non scrivono; Peppino gli fa appunto da compare, fingendosi un onesto cittadino qualunque e acquistando la prima penna della partita con un biglietto falso. E siccome la coppia funziona, praticamente in contemporanea i due girano anche “I pappagalli” che non un vero e proprio film di coppia, ma piuttosto una pellicola appartenente al filone delle “storie parallele”, o meglio dei film a episodi intrecciati. E’ dedicato al mondo delle servette, ai loro sogni e ai loro amori che durano (i più fortunati) lo spazio di una domenica. Anche se a dir la verità, la commedia è più attenta a sfruttare le possibilità comiche degli attori che a qualsiasi lettura di costume. Il trait d’union è Aldo Fabrizi, truccato con baffoni e sopracciglia da cattivo del muto, nel ruolo di un portinaio ed ex carabiniere che ogni tanto fa ancora confusione tra l’antico e il nuovo mestiere. E poi c’è Alberto Sordi nei panni di un padrone di casa che in assenza della moglie seduce la sua cameriera; ma soprattutto Peppino De Filippo, il motore trascinante del film, travolgente nei panni di un fruttarolo sedicente cleptomane, fidanzato con una delle servette del condominio. Peppino e Fabrizi, che per la verità non hanno molte sequenze in comune, ci regalano comunque alcune divertenti scene insieme. Come quella finale in cui il portiere Fabrizi sottrae a Peppino il maltolto della giornata, dai soliti bottoni (per il quale il cleptomane fruttarolo ha una predilezione particolare) a un impensabile macinino da caffè. E quando Peppino gli chiede, non riuscendo a ripartire con la macchina, di dargli una spinta, Fabrizi non se lo fa dire due volte e la spinta gliela dà prontamente, però a lui in persona, spingendolo di forza dentro l’abitacolo.

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Il quartetto d’oro della pellicola “Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo”(1956). Da sinistra a destra: Peppino De Filippo, Aldo Fabrizi, Gino Cervi ed Alberto Sordi.

Della coppia, prima dei film corali degli anni ‘60 marchiati “4” (“I quattro monaci” e “I quattro moschettieri” ) interpretati insieme a Macario e Nino Taranto, dei quali ne parleremo in seguito; va nominato almeno “Siamo tutti inquilini”, commedia agro-dolce del 1953, che vede come protagonisti gli stessi Fabrizi e Peppino, più l’apporto della giovane diva Anna Maria Ferrero. Un film che, per quanto riguarda la coppia, ma soprattutto riferito a Peppino, ha un record rimasto ineguagliato nella storia del cinema mondiale. Ma procediamo con ordine. Il film, diretto da Mario Mattoli, in origine non annovera nel cast Peppino De Filippo. E’ la storia di un condominio tiranneggiato da un avaro e cattivo amministratore, il quale vuole a tutti i costi sfrattare la timida proprietaria di un appartamento che è in arretrato con le spese. Eviterà il provvedimento grazie al portiere dal cuore d’oro (Aldo Fabrizi) che saprà guidare la rivolta degli altri inquilini contro l’odiato amministratore. E Peppino dov’è? Ci si chiede. Peppino entra in gioco, a riprese in atto, allorquando l’esperto Mattoli si accorge, che questo film schematico e ambiziosetto rischiava di diventare moscio e poco divertente. Pensò di allora di aggiungervi un personaggio che potesse con la sua semplice presenza ravvivarlo: e quale toccasana migliore, in questi casi, di un Peppino De Filippo? Poiché tuttavia Peppino si trovava a Milano impegnato in teatro (mentre il film si stava girando a Cinecittà), il regista si trasferì nel capoluogo lombardo con tutta la troupe, fece ricostruire rapidamente in uno studio milanese la portineria del condominio romano e vi girò in un’unica giornata tutte le scene con Peppino (che distribuì poi per tutto il film come manciate di sale su una minestra sciapa). In effetti il personaggio di Peppino, questo rompiscatole patentato che è l’ombra e l’incubo del mite portinaio Fabrizi, appare del tutto inutile nello sviluppo narrativo del film: lo si potrebbe togliere e la trama non cambierebbe di una virgola. Eppure ebbe ragione Mattoli, perché senza di lui, senza i suoi impagabili duetti con Fabrizi, il film sarebbe arido e noioso e non avrebbe avuto quel successo che poi ebbe all’epoca al botteghino. Peppino è una specie di portinaio in seconda, che si è installato nella guardiola dell’amico sperando di prenderne il posto. La forza anarchica di Peppino, in antitesi al senso del dovere di Fabrizi è la chiave del successo del film. Peppino, in particolare, spazza via ogni convinzione e ogni convenzione con la forza irriverente e sbarazzina della sua tontaggine divertita. Ha la colossale sfrontatezza, la perfetta faccia da schiaffi di chi approfitta del proprio ruolo di ospite per poter fare il padrone: si fuma i foglietti del calendario, si fa beatamente la barba in portineria come se fosse un albergo diurno, gioca a carte con Fabrizi barando allegramente (ogni volta che l’altro si gira, a lui spunta in mano un settebello); in più continua ad augurare disgrazie al portiere titolare, e nella foga della discussione gli morde anche un dito. Quando poi, Fabrizi lo lascia da solo, si mangia la spesa che gli inquilini depositano in portineria, sorveglia la corrispondenza come un censore militare, fa il galante con le cameriere e si prende le mance al posto di Fabrizi, e tutto questo in un solo giorno di riprese.

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Peppino De Filippo e Aldo Fabrizi sul set del film “Siamo tutti inquilini”(1953).

Negli anni ’60, Fabrizi e Peppino tornano a lavorare insieme, affiancati agli amici e colleghi Nino Taranto e Macario, ne I quattro monaci e ne I quattro moschettieri. Una doppia coppia comica, si disse, come si disse anche il “poker d’assi della risata”. Quella piccola grande storia di collaborazione ed amicizia fraterna andò più o meno così. Quel breve ma intenso gruppo di film, con il comune denominatore del “quattro” contenuto nel titolo, ha inizio con “I quattro monaci”(1962) e continua con “I quattro moschettieri”(1963), “Totò contro i 4″(1963), stavolta con l’apporto anche del Principe De Curtis, e “I quattro tassisti”(1963). L’intuizione di unire 4 assi del cinema italiano, che erano peraltro tutti molto amici, nacque dall’intuizione del regista Carlo Ludovico Bragaglia, che aveva un soggetto corale, ispirato ad un fatto di cronaca realmente accaduto in Sicilia e di chiaro stampo truffaldino, sulla falsariga dei “Soliti ignoti”. Ma l’inizio di questa breve e fortunata collaborazione o serie di film, affonda le sue radici nell’insuccesso del film “Totò e Peppino divisi a Berlino”(1962), in cui i produttori compresero che l’epoca d’oro della coppia stava volgendo al termine. Nello stesso momento, le quotazioni di Totò erano leggermente in ribasso, spesso in accoppiata; mentre quelle di Peppino, rinvigorito dal film girato con Fellini (“Le tentazioni del dottor Antonio”), erano ancora in ascesa. E poiché i produttori italiani avevano l’abitudine, nei momenti di crisi, di puntare sulla quantità, pensarono di mettere insieme quattro comici invece di due per raddoppiare gli incassi. Così si tennero Peppino e sostituirono Totò con Aldo Fabrizi, Macario e Nino Taranto, il meglio del cinema italiano della cosiddetta “prima generazione”. Nacque così “I quattro monaci”, divertentissima commedia vispa e naif, che incassa tantissimo, come prevedibile, superando i 600 milioni di lire di incasso. Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo, Nino Taranto e Macario nei panni rispettivamente di Frà Crispino, Frà Giocondo, Frà Gaudenzio e Frà Martino, trainano una pellicola che diverte con spensieratezza dal primo all’ultimo minuto. Il regista è Carlo Ludovico Bragaglia, che dirige il film con la consueta competenza e gestisce al meglio i tempi comici e la compresenza dei quattro leoni del palcoscenico, che invece di alternarsi davanti alla macchina da presa vivono le loro avventure perennemente e pericolosamente insieme. Un bella lezione di misura e di collaborazione comica per tempi, come i nostri, in cui spesso i film comici di cassetta non sono che vetrine per commedianti vanitosi, magari di estrazione televisiva, che si concedono col bilancino e non rischiano più di una scenetta in tandem, diciamo quella finale. “I quattro monaci” è un film fresco e pimpante, per famiglie e per cultori di una comicità popolare ma non volgare, che il tempo non ha inficiato. La pellicola è vagamente ispirata ad un fatto vero, accaduto qualche mese prima nel paesello siciliano di Mazzarino, in provincia di Caltanissetta. L’ operazione riuscì splendidamente, tanto dal punto di vista commerciale, per via di tutti quei nomi di richiamo; che da quello prettamente artistico, che anche se registra la solita negativa presa di posizione della critica, si evidenzia per un ottimo affiatamento di squadra, tra i quattro grandi mattatori dello spettacolo. Infatti, è molto difficile non divertirsi quando sono in scena i quattro protagonisti, e cioè quasi sempre. La pellicola fu girata in meno di un mese, da vero “instant movie”, per approfittare dell’eco suscitato in Italia dalla vicenda dei frati di Mazzarino. I quali, diversamente da quelli del film, erano frati veri, accusati di essere i capi mafia del paese e di avere compiuto una serie impressionante di estorsioni e delitti. La scena più divertente è quella della tentata fuga dal convento cui sono ospitati i quattro protagonisti, che poi decideranno di rimanerci, per mettere in atto i loro piccoli ricatti alla gente del luogo, estorcendo loro vettovaglie e piccole somme di denaro. Visto che il gruppo dei “quattro”, aveva funzionato in maniera soddisfacente, il produttore Gianni Buffardi (genero di Totò) diede carta bianca al regista Bragaglia e agli sceneggiatori Bruno Corbucci e Gianni Grimaldi, di mettere a disposizione del quartetto un altro divertissement. Stavolta gli sceneggiatori optano per parodiare un classico della letteratura, prendendo spunto dalle gesta degli eroi di Dumas padre. E dunque in tempo di record venne messo in piedi il film “I quattro moschettieri”, una pellicola che omaggia l’intero armamento narrativo dei “Tre moschettieri” di Dumas, aggiungendone un quarto. Ne esce fuori una farsa sopraffina e divertente, “un divertissement di ruvida intelaiatura”, si disse all’epoca, ma completamente sorretto dal quartetto di protagonisti. A dir la verità, benché il titolo facesse chiaramente riferimento al precedente successo, i “quattro” di cui si parla non sono più gli stessi: fermi restando Aldo Fabrizi, Macario e Nino Taranto, il posto di Peppino è stato preso da Carlo Croccolo. Peppino c’è comunque, ma appare, in regime di partecipazione straordinaria, nei prestigiosi panni del cardinale Richelieu. In origine il posto di quarto moschettiere sarebbe dovuto appunto andare a Peppino, poi i suoi impegni teatrali costrinsero produttori e regista ad affidargli il ruolo del cardinale, meno impegnativo. Il film, pur divertente e interessante nella sua ricostruzione storica, non conferma il successo della precedente pellicola fermandosi non oltre i 200 milioni di lire incassati. Nonostante il calo, però, la serie non si conclude, anzi il produttore Gianni Buffardi, pensò di rincarare la dose aggiungendo ai quattro eroi un quinto, e altrettanto illustre compare: Totò. Era il periodo in cui Totò veniva “incrociato” con i generi più disparati: dall’horror (“Totò diabolicus”) al film di pirati (“Totò contro il Pirata Nero”), dal peplum (“Totò contro Maciste”, “Totò e Cleopatra”) al documentario sexy (“Totò di notte n.1”, “Totò sexy”). Affidato allo specialista Steno, l’incontro-scontro fra Totò e i “quattro” avrebbe dovuto intitolarsi “Totò-Steno 14”, per fare il verso al felliniano “Otto e mezzo”: era infatti la quattordicesima volta che l’attore e il regista-sceneggiatore lavoravano insieme. Poi finì per intitolarsi molto più semplicemente e logicamente “Totò contro i quattro”. Ma in realtà non si trattava di una vera e propria fusione fra Totò e i quattro, bensì di un film a episodi intrecciati in cui l’attore fa coppia di volta in volta con ognuno di essi. Sebbene sappia fin da lontano di operazione commerciale e sebbene sia assai sconnesso, il film- una specie di aggiornamento del vecchio “Accadde al commissariato”, dove il commissario era Nino Taranto- risulta tutto sommato abbastanza divertente: i dialoghi sono brillanti e i duetti fra Totò e i suoi colleghi spassosi. Si sente insomma la mano di Steno, la sua artigianale maestria nel rispettare la libertà d’improvvisazione dei grandi comici. I “quattro” che allegramente si alternano al fianco di Totò, sono sempre loro, ovvero i protagonisti dei due precedenti film della serie: Aldo Fabrizi, che torna ad indossare l’abito talare, nel ruolo di un prete che all’occorrenza dispensa fior di sganassoni; Macario, che fa il matto come nello “Smemorato di Collegno”; Nino Taranto, in un episodio ispirato a un fatto di cronaca verificatosi qualche mese prima a Terni, è un impagabile doganiere pugliese, un meraviglioso concentrato dei difetti del funzionario meridionale, furbetto e ottuso; e per ultimo Peppino De Filippo, che interpreta un omettino insistente e moltesto, testardo e appiccicoso, il quale pensa di essere stato tradito ed avvelenato dalla moglie. La banda dei “quattro” torna in scena alla fine del 1963, con l’ultimo film della serie, ovvero “I quattro tassisti”, ma stavolta ognuno nel suo episodio. Altra vistosa differenza la si nota nel cast, il film è diviso in 4 episodi, ognuno di questi ambientato nelle maggiori città italiane: Milano, Napoli, Torino e Roma. Per le ultime due, la scelta era semplice, e gli episodi vennero rispettivamente affidati a Macario e Aldo Fabrizi. Per Napoli si scelse Peppino De Filippo, e così fuori dal progetto rimase Nino Taranto. Serviva un quarto, che rappresentasse Milano. La scelta cadde su Gino Bramieri, comico molto in voga all’epoca e particolarmente gradito al pubblico settentrionale. La regia del film fu affidata a Giorgio Bianchi, essendo venute meno le disponibilità sia di Bragaglia (ritiratosi a vita privata), che di Steno, impegnato su altri set. Il film si colloca nel filone dei film ad episodi, uno di seguito all’altro, uniti assieme dal “filo giallo” del taxi, uno dei luoghi più frequentati dell’immaginario cinematografico di sempre, perfetto per raccontare vite veloci, di passaggio, e confessioni facilitate dalla confidenza che si è soliti accordare agli estranei. L’episodio con Gino Bramieri è divertente e nulla più; quello con Peppino è ammiccante e alquanto piccante per l’epoca; quello con Macario (il migliore) è avvolto da una malinconia di fondo veramente azzeccata, e quasi tutto girato in nottruna; quello con Aldo Fabrizi è invece un raccontino graffiante e squisitamente parodistico. La serie cinematografica dei “quattro” costituì in definitiva l’ultima occasione d’oro per Fabrizi e combriccola: la seconda metà degli anni ’60 non riserverà infatti grandi sorprese per il gruppo, che si “ricicleranno” con alterno successo in televisione e in teatro. Per la verità soltanto Nino Taranto, continuerà una costante e continua carriera cinematografica, impiegato come elemento comico all’interno dei cosiddetti “musicarelli”, che proprio dal 1964 inizieranno a spopolare nelle sale.

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Il quartetto di protagonisti del film “I quattro monaci”(1962), con Aldo Fabrizi, Nino Taranto, Macario e Peppino De Filippo.

BIBLIOGRAFIA:

– Il cinema di Peppino De Filippo, di Enrico Giacovelli ed Enrico Lancia, Gremese Editore

-Peppino De Filippo, Pappagone e non solo…, a cura di Marco Giusti, Mondadori

– Aldo Fabrizi, mio padre, di Massimo Fabrizi, Gremese Editore

Domenico Palattella

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