
Negli anni ’10, in Italia nasce il Divismo, prima degli americani, prima dei francesi, prima di tutti. Quì da noi fu una prerogativa quasi prettamente femminile nel cinema italiano del Muto. Rodolfo Valentino, Divo dei Divi per eccellenza infatti, fece fortuna oltreoceano. In poco tempo le attrici teatrali iniziarono a recitare al cinematografo diventando le prime Dive di celluloide della Storia del Cinema. Il vantaggio che offriva il cinema rispetto al teatro era l’accessibilità anche alle classi più basse, permettendo persino allo spettatore più povero di accedere alla magia incantatrice del cinematografo. Lyda Borelli, Pina Menichelli, Francesca Bertini, Leda Gys, Soava Galloni, regalarono i primi sogni all’universo femminile e in fondo anche a quello maschile. Il divismo femminile nell’inizio del ‘900 era fenomeno inusuale, considerato la posizione subordinata che aveva la donna nella società profondamente maschilista e patriarcale dell’epoca. Solo in italia, infatti, prima dell’avvento del sonoro, si era sviluppato il cosiddetto divismo al femminile, e non si può certo dire che la cultura sociale italiana dell’epoca fosse aperta alla parità dei sessi. Certo che no. Eppure la femme fatale fu la tipologia che più di ogni altra s’impadronì del cinema italiano di quegli anni. Vero è, però che il divismo nel nostro paese non fu estraneo all’influenza delle evoluzioni sociali e artistiche che investirono l’Italia giolittiana. Il ruolo della donna, nell’ambito di una piccola rivoluzione sessuale (più letteraria che reale), cambiò parallelamente all’esplosione dei movimenti artistici d’avanguardia (ad esempio il Futurismo) e alla febbre dannunziana che colpì i lettori della classe borghese (da sottolineare la somiglianza di Elena Muti, protagonista del romanzo Il piacere del 1889, con Lyda Borelli, prima grande diva del cinema italiano). Il divismo italiano, con alcune eccezioni, parlava al femminile ed era popolato di donne fatali, lontane dallo stato reale di subordinazione in cui viveva la maggior parte delle donne, ma che ugualmente offriva il modello (forse irraggiungibile) di un superamento dei ruoli tradizionali. Le nuove ragioni sociali trasformarono sovente la femme fatale, in eroina, non più dispensatrice di morte e di rovina, ma salvatrice. Attorno a questa tipologia se ne svilupparono altre che vanno dalla donna sconosciuta (la bella misteriosa che nessuno sa da dove arrivi) alla donna madre e alla donna angelica, indifesa e pura. Dunque il divismo italiano del cinema muto ebbe profonde implicazioni socio-culturali. Proprio negli anni che precedono l’avvento del fascismo, gli italiani cominciarono a percepire l’assoluta permeabilità del cinema con le altre arti quali la poesia, il teatro, l’architettura. Gli attori cinematografici cominciarono ad essere conosciuti alla grande folla, fino ad arrivare, già nel 1913, alle prime manifestazioni di idolatria collettiva. Alacci, che scrisse nel 1920 il primo libro dedicato al divismo italiano, riconobbe il ruolo di caposcuola a Lyda Borelli: “tutte la scimmiottano, fin nei minimi particolari, tant’è vero che si dice che la cinematografia italiana è malata di borellismo“.

In questo clima culturale, in cui il cinema è influenzato per la prima volta dalle altri Arti figurative, crebbero tutta una serie di Dive, tra cui Pina Menichelli, Musa ispiratrice del regista Giovanni Pastrone; e poi Leda Gys, Bianca Belliccioni Stagno, insomma ci sono tutta una serie di Dive che nascono nella varie città dove si fa il cinema, ovvero Torino, Roma e Napoli. Ecco quindi, che escono fuori i caratteri più emergenti e i talenti più affini al mezzo cinematografico dell’epoca: Francesca Bertini a Napoli, Pina Menichelli a Roma, Lyda Borelli a Torino. Le tre figure di primo piano del sistema divistico italiano del cinema Muto. L’ultima citata, Lyda Borelli, fu la primissima Diva, forse la più ricordata dell’epoca, anche se nel 1918 sposa il Conte Cini e finisce per abbandonare il cinema, però tanti film sono legati alla sua figura e alla sua sensualità. Tanto che le fu anche dedicato un sonetto rimasto nella storia:
“Mai essere umano,
mai essere femminile,
seppe tramutarsi così profondamente
nelle linee, nelle espressioni …”
Nelle parole che Matilde Serao dedicò a Lyda Borrelli, c’è forse il significato di quel fenomeno che investì la nostra cinematografia, per oltre 100 anni, con l’apice che sarà raggiunto nella splendida Italia della Dolce Vita, ovvero il Divismo.
Lyda Isabella Borrelli era nata a Rivarolo Ligure nel 1887, da una famiglia di attori teatrali non proprio di successo. Sin dai suoi primi spettacoli era riuscita ad attirare il pubblico che la acclamava, non solo per il suo modo di recitare, ma soprattutto per la sua bellezza disarmante e del tutto insolita. Era diversa. Molto alta, magra per l’epoca. Per assomigliarle le donne dimagrivano fino ad ottenere esiguità serpentine e scovavano nei fondi di magazzino tessuti delle più importanti case di moda parigine. Il tutto per imitarne i contorcimenti del corpo, voluttuosi e languidi e improntarono addirittura nuovi canoni di seduzione. Nacque il metodo di seduzione “Borelli”. Il suo corpo fu paragonato ai girali Liberty della Metrò Parigina. Erede riconosciuta della Duse (che si piegò al cinema solo una volta in tarda età) la Borelli incarnò il personaggio che più di chiunque altro ha lasciato i segni nella storia del costume italiano attraverso il cinema. Il suo debutto fu un vero exploit. Già dal film di Camerini del 1913 “Ma l’amore mio non muore”, Lyda Borelli s’impose nell’immaginario degli italiani. Attraverso il gesticolare vorticoso, l’intensa espressività del corpo, l’attrice comunicava le passioni irrefrenabili dell’amore. Fu dunque, subito Diva. L’Italia borghese era in ginocchio davanti all’icona dannunziana, affascinata dal tormento sentimentale, pervasa dal furore dell’amore, della guerra eroica, del rombo degli aeroplani. L’avvento del sonoro trasformerà la recitazione plateale della Borelli in comiche involontarie, tanto ampio era il suo gesticolare. Forse Lyda Borelli non avrebbe avuto vita lunga, se non avesse abbandonato la carriera per sposarsi, in un periodo in cui il mezzo cinematografico progrediva giorno dopo giorno (pensiamo al sonoro nel ’27) e la società cambiava radicalmente. Tra i maggiori successi della diva ricordiamo: Marcia nuziale (1915), Fior di male (1915), Malombra (1917) di Carmine Gallone, Rapsodia satanica (1916) di Nino Oxilia, Una notte a Calcutta (1918) di Caserini. Nel libro “Cent’anni di cinema italiano”, Gian Piero Brunetta, uno dei decani assoluti della Critica Cinematografica italiana, definisce così il talento della Borelli: “In Rapsodia Satanica Oxilia riesce ad aggiungere alla materialità fisica anche la rappresentazione della levità di alcuni sentimenti. Quando le sue braccia si allargano ad imitare i gesti della farfalla si può dire che raggiunga un grado di stilizzazione imprevisto che solo la grafica e la poesia di alcuni autori è stata capace di esprimere. Nella parte centrale del film, quando sente che il desiderio batte alle porte del cuore e si abbandona al delirio di giovinezza i suoi gesti producono invece, nella maniera più solenne e emblematica, una comunione rituale col pubblico”. Il suo stile ha fatto epoca, Lyda, con la sua arte della seduzione, così arcaica, ha creato il “Borellismo”. Ha creato un modo di presentarsi e un modo di recitare che ha fatto epoca. Durante la Prima guerra mondiale i soldati nelle trincee tenevano i volti, le fotografie di Lyda Borelli, di Francesca Bertini, di Italia Almirante e di altre, però la Borelli è stata un personaggio eccezionale nella prima Italia del Cinema, forse più di tutte. Nel 1918 sposa il Conte Vittorio Cini e fu costretta ad abbandonare le scene al culmine del suo splendore ritirandosi a vita privata. Il Conte Cini forse imbarazzato per aver sposato una donna desiderata da tutti, fece in modo di rinchiuderla in una gabbia dorata facendo sparire abiti di scena, pellicole e quant’altro la ricordasse come Diva. Privata della sua essenza vitale, la ormai malinconica Lyda si dedicò totalmente ai figli. La sua malinconia cominciò però, a diventare tragedia quando nel 1949 il primogenito Giorgio morì vittima di un incidente aereo di ritorno da Montecarlo. L’attrice ebbe altre tre figlie, ma complici le continue infedeltà del marito, la divina finì per ammalarsi e nel 1959 morì. Il suo ennesimo e ultimo film della vita si era compiuta come i melodrammi dal lei interpretati.

Destino molto diverso lo ebbe Francesca Bertini, l’altra leggendaria Diva dell’epoca che continuò saltuariamente a recitare fino al 1978. Era nata da una modesta commediante toscana nel 1892. La sua carriera sul grande schermo iniziò nel 1912 e nel corso dei nove anni successivi, cioè fino al 1921 interpretò con successo sempre crescente oltre 100 film. La sua recitazione melodrammatica, la sua notevole bellezza, la grande capacità di padroneggiare le scene con disinvolta bravura, fecero della Bertini una delle massime Dive del Cinema. Per alcuni versi la Bertini, può essere considerata l’antesignana della Magnani, per intensità recitativa, per quella vena passionale e cruda che la contraddistinse dalla Borelli, intellettuale e dannunziana. D’altronde Gramsci, a torto o a ragione, disse che la Borelli sapeva recitare solo se stessa, mentre la Bertini molto più versatile e meno disposta a cedere sul lato divistico del termine, si prestò nel tempo ad interpretare i ruoli più diversi tra loro. In “Assunta Spina”(1915), il più importante film muto della storia del cinema italiano, per esempio, la Bertini passò dal ruolo di femme fatale, spregiudicata e sfacciata nel sedurre, a donna angelo che si annulla pur di salvare il proprio uomo auto-accusandosi addirittura di omicidio. In realtà questa metamorfosi della Diva non era così rara nelle pellicole di inizio secolo. Le dive interpretavano ruoli presi in prestito dalla letteratura e dai melodrammi pucciniani, ed erano di volta in volta le femme fatale, le seduttrici, le donne angelo, le donne natura sommerse di fiori che mordono con cupidigia. Particolarmente apprezzato era il ruolo della fanciulla perseguitata, preda della pazzia spesso causata dalla follia d’amore, incomprese e che trovano nel suicidio la forma più suprema di autoesaltazione, secondo i moduli dannunziani, tanto in voga all’epoca.

La Bertini fu la prima Diva popolana del cinema italiano, meno sofisticata della Borelli ma più inserita nel contesto sociale dell’epoca. Altezzosa ed egocentrica oltre misura, come tutte le Dive che si rispettino, arrivò al successo nel 1915 con il ruolo della napoletanissima “Assunta Spina”, nell’omonimo film tratto dal dramma di Salvatore Di Giacomo, per la regia di Gustavo Serena. Ma la Bertini non si limitò a recitare la parte di protagonista. Volle avere un ruolo primario anche nella realizzazione del film. Lo confermò lo stesso Gustavo Serena:
“E chi poteva fermarla? La Bertini era così esaltata dal fatto di interpretare la parte di Assunta Spina, che era diventata un vulcano di idee, di iniziative, di suggerimenti. In perfetto dialetto napoletano, organizzava, comandava, spostava le comparse, il punto di vista, l’angolazione della macchina da presa; e se non era convinta di una certa scena, pretendeva di rifarla secondo le sue vedute.”
Il fascino che emanava la sua figura, gracile, dai capelli corvini e con uno sguardo acceso e intenso, le fecero presto varcare i confini come tipo d’una bellezza meridionale e popolaresca. In seguito interpretò sullo schermo grandi personaggi letterari e teatrali, come Fedora, Tosca e la Signora delle Camelie. La sua notevole bellezza e la capacità di imporre la propria presenza in scena, soprattutto in parti tragiche, fecero di lei il primo esempio di diva cinematografica, come la si intende oggi. Francesca Bertini inaugurò uno stile che, solo molto tempo dopo è stato ascritto al genere del divismo. Alcuni esempi: per ogni scena pretendeva di indossare un abito nuovo; il vestito, fatto su misura dalla sarta, doveva inevitabilmente essere inaugurato il giorno successivo; qualsiasi film stesse girando, in qualsiasi luogo si trovasse, la Bertini alle cinque del pomeriggio si fermava e si recava in un grande albergo per prendere il tè in compagnia di alcune dame. Nell’agosto 1921 sostenne il suo ultimo ruolo notevole, nel film La fanciulla di Amalfi, poi in settembre si sposò. Nella sua pur breve carriera aveva girato un centinaio di film e guadagnato quattro milioni di lire dell’epoca. In seguito al matrimonio le sue apparizioni si fecero molto più rare; ma è verosimile che con l’avvento del cinema sonoro, come molti altri attori del muto, anche lei non avrebbe saputo adeguarsi alle nuove tecniche di recitazione, penalizzata inoltre dal suo timbro di voce non proprio gradevole ed infatti in Odette il suo primo ed unico film sonoro, girato nel 1934 prima del suo ritiro definitivo, venne doppiata da Giovanna Scotto. Al di là del Divismo nascente, la figura di Francesca Bertini, è importante nella storia del cinema italiano, anche per un altro motivo più tecnico e più aderente alla recitazione, rispetto al contorno del cinema stesso. E’ lei l’attrice che ridusse le distanze fra il cinema e il teatro, che più di ogni altro interprete segnò il passaggio dalla recitazione teatrale a quella cinematografica. Una recitazione moderna, microespressiva, densa di passioni. Quello tra la Bertini e la Borelli fu il primo grande scontro mediatico del cinema italiano, ben prima del dualismo Loren-Lollobrigida. Anche allora si stendevano articoli e articoli sulle due Dive italiane dell’epoca, creando un primo straordinario gossip allo stato embrionale. Punto di forza della Bertini rispetto alla Borelli fu senza dubbio la fotogenia: la macchina da presa si avvicinava fino a sfiorarne il volto, per catturare i piccoli movimenti espressivi che ammalieranno il mondo intero. Ma la Bertini ebbe, rispetto alla Borelli, anche un temperamento più versatile, come testimonia il passaggio dall’interpretazione stilizzata di Pierrot in Histoire d’un Pierrot (1914) di Baldassarre Negroni a quella passionale di Assunta Spina (1915) di Gustavo Serena. Nel 1916 il critico francese Louis Delluc, scriverà di lei: “Francesca Bertini è bella da vedere e possiede una forza selvaggia infantile”. Alla fine della guerra fondò una propria casa di produzione (Bertini Film) che realizzerà tra il 1918 e il 1919 una serie di opere ispirate ai Sette peccati capitali di Sue (L’orgoglio, la Gola, L’Ira). L’astro della Bertini comincerà a tramontare proprio sul finire degli anni dieci, durante i quali mise a segno gli ultimi grandi successi di pubblico (Lussuria) ma subì anche i primi attacchi da parte della critica. Nel 1920 il pubblico comincerà ad abbandonarla. L’accoglienza tiepida a film come La Principessa Giorgio, Lisa Fleuron, L’Ombra, testimoniano le crepe nel consenso popolare. E’ difficile dire quanto sia stato il pubblico ad abbandonare l’attrice o quanto sia stata l’attrice ad abbandonare il pubblico. A sostegno della prima tesi c’è la trasformazione sociale avvenuta all’indomani della prima guerra mondiale, l’esigenza del cambiamento di un mondo diventato improvvisamente troppo vecchio. Non a caso anche le altre dive italiane si ritroveranno alle soglie degli anni venti senza pubblico. Quanto sia stata la Bertini ad allontanarsi dal pubblico e dalla critica è difficile da capire, se non dalle parole di un critico che dopo la proiezione del film La Serpe scrisse: ”La Bertini “bertineggia” quando parla, quando mangia, quando balla, quando si soffia il naso”. Come se l’attrice si fosse staccata definitivamente dalla realtà per inseguire all’infinito un suo cliché personale. Abbandonerà il cinema per sposarsi con il conte Paul Cartier, rifiutando offerte milionarie da parte della Fox, che avrebbe voluta consacrarla a Hollywood.
C’era poi Pina Menichelli, all’anagrafe Giuseppa Iolanda Menichelli. Appartenente ad un’importante dinastia di attori teatrali, il cui capostipite fu Nicola Menichelli, apprezzato comico della metà del Settecento, e della quale ignota rimane l’origine geografica precisa. Pina Menichelli, nacque da Cesare e Francesca Malvica, attori girovaghi, a Castroreale, antico comune della provincia di Messina, il 10 gennaio 1890. Fu sposata due volte, la prima, dal 1909 con il napoletano Libero Pica dal quale ebbe due figli e si separò qualche anno più tardi, la seconda dal 1924 (alla morte del primo marito) con il barone Carlo Amato. Dopo alcune esperienze in varie compagnie teatrali, intraprese un cammino cinematografico grazie alla casa Cines di Roma, una delle più importanti dell’epoca, dove, fra il 1913 e il 1914, recitò in numerosi film. Fra essi spicca Scuola d’eroi, in cui venne notata dal regista e produttore cinematografico Giovanni Pastrone (autore del celebre Cabiria), che la chiamò poi all’Itala Film di Torino, dando così inizio alla sfolgorante “avventura cinematografica” dell’attrice. Il suo primo film con Pastrone, dal titolo “Fuoco”, segnò l’inizio del suo successo da Diva. I protagonisti sono un’ammaliante ed enigmatica poetessa (la Menichelli) ed un giovane ed ignoto pittore (Febo Mari, autore del soggetto), i quali vivono una bruciante vicenda d’amore che si accende per una semplice favilla, si esalta nella vampa per poi non lasciare che cenere. Il film ebbe un enorme successo, e la Menichelli, perfetta (anche fisicamente: si pensi all’acconciatura da gufo) nel ruolo di crudele e sensuale maliarda, divenne una stella di prima grandezza, etichettata come la femme fatale per eccellenza del cinema italiano. L’anno seguente fu la protagonista di Tigre reale (sempre diretta da Pastrone), dove, interpretando la sinuosa e fatale contessa Natka, confermò le sue non comuni capacità d’attrice e di femme fatale. Tra gli altri film di successo che realizzò per l’Itala, si possono ricordare La moglie di Claudio, L’olocausto del 1918 e Il padrone delle ferriere del 1919. Nel 1920 passò alla romana Rinascimento Film (fondata per lei dal barone Carlo Amato, suo futuro marito, e dove ebbe una breve parentesi due anni prima con Il giardino delle voluttà), continuò ad affascinare le platee di mezzo mondo (nonostante la critica bacchettasse la sua recitazione manierata e forzata tipica dell’epoca) con pellicole come La storia di una donna e Il romanzo di un giovane povero (1920), La seconda moglie (1922), La donna e l’uomo e La biondina (1923). Sempre nel 1923, stanca di interpretare gli stessi personaggi di seduttrici voluttuose e tormentate eroine, lavorò con brio e agilità a due commedie, dimostrando non comuni doti trasformistiche: La dama de chez Maxim’s e Occupati d’Amelia, che sbalordirono critica e pubblico. C’è da notare, come, in seguito al ritiro dalle scene delle altre due Dive dell’epoca, la Borelli e la Bertini, la Menichelli diventa l’attrice di punta del nostro giovane cinematorafo. Dopo questi due lavori, nel 1924, la Menichelli si ritirò da ogni attività artistica per dedicarsi ai suoi doveri di madre e moglie serena, e il “dovere di dimenticare” divenne la sua parola d’ordine. Anche la morte di questa conturbante e bravissima diva dalla bella figura (non alta, ma slanciata, capelli biondissimi, grandi occhi azzurri, bocca sensuale, naso un po’ aquilino), avvenuta a Milano all’età di 94 anni, passò inosservata. Fu la “terza diva” dell’epoca, profondamente diversa dalla Bertini e dalla Borelli, ma non meno apprezzata. In 12 anni di carriera, tra il 1913 e il 1925 interpretò oltre 60 film. Piccola, bionda, occhi chiari e il naso aquilino, la Menichelli seppe mettersi totalmente a disposizione del regista, figura della quale intuì l’importanza più di molte altre attrici e attori, che troppo spesso si consideravano i veri autori dei film. La Menichelli, pur non raggiungendo la notorietà della Borrelli e della Bertini, fu un’attrice di qualità, che non si lasciò mai imprigionare dalle etichette dei ruoli che il cinema imponeva.

Interessante è notare, un elemento che sarà il leit-motiv del Divismo, nel corso degli anni futuri del XX secolo, ovvero l’attenzione delle classi nobiliari ad impalmare le Dive del cinema, proprio perché la Diva rappresenta la donna per eccellenza nell’immaginario comune creato dal Cinema. Accadde a Lyda Borelli, accadde a Francesca Bertini, accadde a Pina Menichelli. Accadrà negli anni ’50 a Marisa Allasio, Anna Maria Ferrero e potremmo ancora continuare. Alle tre grandi dive italiane del Muto, è doveroso aggiungere altre attrici che, pur non eguagliando lo splendore delle due dive, entrarono, seppur con minore importanza, nell’olimpo del cinema italiano di quegli anni. Tra queste, spesso innalzate all’olimpo del divismo solo da critici prezzolati, e destinate a ruotare attorno agli astri splendenti delle colleghe più famose, ricordiamo fra le migliori: Hesperia (La Signora delle Camelie del 1915), Italia Almirante Manzini (Cabiria), Leda Gys (Christus, Quando si Ama, Una Peccatrice), Lina Cavalieri (Manon Lescaut). Distanziate da queste ultime vanno però anche ricordate Mary Cleo Tarlarini, Elena Sangro, Maria Melato, Linda Pini, Tilde Kassai, Bianca Bellincioni Stagno, Soava Gallone, Diomira e Maria Jacobini.. Tutte ex attrici di teatro votate alla nuova arte.Tutte, chi più, chi meno, hanno avuto il loro piccolo “momento di gloria” e una citazione doverosa nella storia del cinema italiano dei pionieri.

Il Divismo dunque, nasce con il cinema e ha modificato sensibilmente la società italiana del primo ‘novecento, portatrici di mode e modi, le divine influenzarono l’universo femminile e diedero vita ad un primitivo femminismo. Senza dubbio furono le madri delle successive Alida Valli, Lucia Bosé, Anna Magnani, Sophia Loren, Silvana Mangano ecc.ecc. Ma pur non avendo il dono della parola ( il sonoro sarebbe stato inventato soltanto nel 1927), riuscirono a dire più di quanto potremmo immaginare, e la loro seduzione, al di là degli evidenti limiti comunicativi tipici del cinema Muto, riesce perfettamente a bucare lo schermo.

Domenico Palattella
Bibliografia:
- Festival, spazi e memoria: le Dive del cinema muto italiano, di Cristina Ciucciarelli
- Il Divismo in Italia negli anni del Cinema muto/ http://www.attracco.it
- Altre documentazioni varie di riferimento