L’avvento del colore nel cinema americano e in quello italiano

totò a colori
L’avvento del colore nel cinema italiano avviene a partire dai primi anni ’50 in seguito ai primi esperimenti che si erano tenuti con successo oltre-oceano. Il primo film a colori della storia del cinema italiano è “Totò a colori”, del 1952, sfruttando la tecnologia tutta italiana del “Ferraniacolor”.

L’apporto del colore all’arte cinematografica, ha fin da subito attirato a sè numerosi esperimenti, tanti di essi con scarso successo. Nel periodo in cui le ricerche furono più intense, cioè fra il 1928 e il 1948, furono proposti più di mille procedimenti diversi. Fino a quando ebbero inizio le prime esperienze concrete per ottenere immagini colorate per sintesi additiva o sottrattiva a partire da due o tre colori primari, fu tentata con successo la colorazione a mano dei singoli fotogrammi dei film. Tecnica, che per intenderci, venne utilizzata ad esempio per le pellicole di Stan Laurel e Oliver Hardy. Val la pena qui, elencare gli esperimenti più significativi, che hanno portato all’avvento del colore nel cinema mondiale, continuando poi il nostro excursus in Italia, dove grazie ad una tecnica tutta italiana, ovvero il “Ferraniacolor”, il colore approda sul grande schermo nel 1952 con la pellicola di Steno, “Totò a colori”. Il colore nasce a braccetto con i primi esperimenti di immagini in movimento. Risalgono già al 1892 questi primissimi tentativi, ad opera di  Charles-Émile Reynaud, che fu il primo ad utilizzare il colore per le sue Pantomime luminose, proiettate al Museo Grévin di Parigi. Immagine per immagine, egli dipinse a mano e applicò le sue tinture a pastello direttamente sulla pellicola Eastman di 70 mm di larghezza, che fece di lui il primo realizzatore di disegni animati a colori. Due anni dopo, nel 1894, uno dei film prodotti da Thomas Edison e realizzati da Laurie Dickson venne colorato anch’esso a mano, stavolta con la tintura di anilina, fotogramma per fotogramma, da Antonia Dickson, la sorella del primo realizzatore di films. È la Serpentine Dance (in italiano La Danza della Farfalla) un film molto breve della durata di una ventina di secondi, dove la danzatrice Annabelle Moore compie delle giravolte con effetti deformanti alla maniera di Loïe Fuller. L’effetto è completamente riuscito, e affascina ancora oggi. Questa è la prima apparizione del colore applicato a una ripresa fotografica animata originariamente in bianco e nero.

charles emile reynaud
Charles-Émile Reynaud, fu il primo ad utilizzare il colore per le sue Pantomime luminose, proiettate al Museo Grévin di Parigi nel 1892. Immagine per immagine, egli dipinse a mano e applicò le sue tinture a pastello direttamente sulla pellicola Eastman di 70 mm di larghezza, che fece di lui il primo realizzatore di disegni animati a colori.

Nel 1906, l’americano James Stuart Blackton registra su pellicola da 35 mm come una macchina fotografica, fotogramma dopo fotogramma, grazie a quello che viene nominato il «giro di manovella» un «procedimento che viene chiamato in Francia “piano americano”. Tutto ciò per un film della Vitagraph Company, ovvero il primo cartone animato su pellicola a 35 mm della storia del cinema, chiamato Humorous Phases of Funny Faces dove vediamo, tracciate con il gesso bianco su uno sfondo nero, una giovane coppia di fidanzati diventare attraverso il disegno più vecchia e imbruttita; il marito fuma un grosso sigaro asfissiando con le boccate la sua sposa che risponde con le smorfie prima di sparire in una nuvola di fumo. La mano del disegnatore al termine cancella tutto. Persino lui stesso è animato. È divertente, ma in questo caso il colore è ancora assente. Il contributo del colore nel cinema passò per i primi decenni attraverso due soluzioni. La prima è a buon mercato ma limitata, però ne viene riconosciuta l’attrazione. Consiste in un bagno per immersione delle copie destinate alla proiezione in uno speciale colorante trasparente che dona a ciascuna copia una luce del tutto particolare. Una bobina che mostra una bagnante al mare è tinta di verde. Una scena di forgiatura o d’incendio sono tinte di rosso. Il blu è utilizzato per le regate sull’acqua, il giallo accompagna una migrazione attraverso il deserto, e così via. La seconda è la colorazione a mano di ciascuno dei fotogrammi, con l’aiuto stavolta dell’inchiostro. Questa tecnica, che esige di essere effettuata da tante piccole mani per terminare in fretta la lavorazione, è per questo molto onerosa in termini di costi, ma gli effetti spettacolari sono garantiti. Le produzioni Pathé, Gaumont e naturalmente quelle di Edison, costruiscono dei laboratori attrezzati e assumono diverse dozzine di ragazze impegnate dapprima a colorare manualmente con un piccolo pennello i fotogrammi, poi attraverso un sistema meccanico, attraverso l’intermediazione di un parallelogramma o da camme, con uno o più stampini. Dopo aver scoperto il découpage tecnico o montaggio classico, la soggettiva ed altre innovazioni rivelatesi fondamentali per il cinema, il britannico George Albert Smith si disinteressò totalmente alla realizzazione dei films commerciali. Preferisce impegnarsi nella ricerca vera e propria, e con l’americano Charles Urban mise a punto un procedimento che donava l’illusione del colore su una pellicola in bianco e nero, il Kinemacolor il cui primo film, intitolato non a caso Un rêve en coleur (Un sogno a colori), porta l’anno 1911. L’innovazione del colore da principio venne vista favorevolmente, ma presto si svelano i molteplici inconvenienti del Kinemacolor: il blu e il bianco rendono male, i colori si percepiscono con una certa pastosità. Dopo aver prodotto almeno 250 film, il Kinemacolor venne abbandonato per ragioni economiche, poco prima della Prima Guerra Mondiale. Un altro procedimento, stavolta completamente americano, lo andrà a rimpiazzare, messo a punto durante le prime fasi della guerra e lanciato nel 1916: il Technicolor. Questo procedimento utilizza anche lui la sola pellicola disponibile in quel momento, quella in bianco e nero. Le riprese si effettuano con una camera pesante, di dimensioni imponenti, che fa scorrere nel medesimo momento ben tre strati di pellicola in bianco e nero sincronizzate tra loro. Dietro l’obiettivo, un doppio prisma passa diritto all’immagine impressionata su uno dei due strati. Per un primo filtraggio, lo stesso doppio prisma devia i fasci di luce di colore rosso e blu su un substrato di due pellicole che passano dentro la macchina da presa una contro l’altra. Il primo strato di pellicola è privo della protezione che normalmente lo chiude nella parte posteriore; l’immagine può attraversare il primo strato impressionandolo con il blu, e nello stesso momento impressiona il secondo filtrandolo con il rosso. Le riprese prevedono tre negativi in bianco e nero, che rappresentano le matrici di ciascun colore primario con i loro complementari (il giallo ottenuto in monocromia blu, il rosso magenta donato in monocromia verde, il blu-verde ottenuto in monocromia rossa). Le stampe delle copie funzionano sul principio e la tecnica della stampa tricromatica, attraverso le medesime possibilità di regolare l’intensità di ciascun colore. In breve tempo si renderà necessario aggiungere un quarto strato, colorato di un grigio neutro la cui matrice viene ottenuta tramite la sovraimpressione fotografica delle tre matrici di ripresa, al fine di sottolineare con maggiore evidenza i contorni delle forme per rendere più corposità al fotogramma.

technicolor
Una camera risalente agli anni ’40 adattata alla tecnologia del Technicolor, insieme all’Eastmancolor il più diffuso procedimento per conferire il colore alle pellicola cinematografiche. Nato nel 1916, ha dato colore a numerose pellicole rimaste nella storia del cinema.

La ricerca del colore è stata dunque, sempre una prerogativa per chi ha lavorato nel cinema, fin dai suoi primi vaggiti, considerando che, già nel bianco e nero, il ruolo della luce assume una importanza rilevante. Nell’immagine in b. e n. le variazioni tonali sono provocate dall’azione combinata della luce con la scenografia e i costumi. La luce, dando per scontato nel nostro discorso che nulla è totalmente scindibile dal tutto, ha le funzioni determinanti di formare la scala dei grigi e di separare gli oggetti fra loro e dal fondo. Sul piano estetico, invece, dà volume e plasticità agli oggetti, divide lo spazio, scandisce il tempo (il giorno e la notte). La mancanza di colore è compensata da chiaroscuri, flou, aloni, silhouette, ombre, raggi obliqui, riflessi, sfondi luminosi. Sullo schermo, figure e oggetti in controluce, tende e persiane che vengono aperte per svelare l’ambiente o le facce, candele e lampade che scavano nel buio, ombre che si avvicinano, diventano presto dei topoi, modi di espressione e di visione, e, in altre parole, mezzo di narrazione. La luce, quindi, è portatrice di senso, veicolo privilegiato di emozioni: dunque il suo uso dipende dal tipo di rappresentazione. Il cinema comico sembra richiedere una scala di grigi non troppo contrastata, ossia luci diffuse, adatte ai campi medi e ai totali, in modo che siano sempre visibili i movimenti e la mimica dei personaggi dentro l’ambiente, e sia sempre ‘chiara’ la situazione. I grigi sono dosati anche in funzione psicologica: il chiarore è di per sé tranquillizzante, e l’oscurità, quando c’è, piuttosto che a generare ansia serve a far nascere le gag e gli equivoci. Sono notti tenui in cui si deve vedere tutto, come quella del tentato suicidio in City lights di Charlie Chaplin (1931; Luci della città): mentre il lieto fine, l’incontro-agnizione con la giovane fioraia, è immerso nel rasserenante chiarore del mattino. Nella rappresentazione drammatica, invece, la luce detta le atmosfere e mette in immagini i contrasti, li asseconda, li sottolinea. E così la creazione del colore e l’avvento di esso nel cinema mondiale, costituirà un ulteriore veicolo di elargizione di emozione tramite il cinema.

charlie chaplin
La luce è in grado di generare atmosfere, riuscendo a sopperire alla mancanza del colore, così ad esempio la scena del tentato suicidio in City lights di Charlie Chaplin (1931; Luci della città) è avvolto dall’oscurità della notte; mentre il lieto fine, l’incontro-agnizione con la giovane fioraia, è immerso nel rasserenante chiarore del mattino.

Negli Stati Uniti, dopo il Technicolor, nasce l’altra grande tecnica cinematografica per conferire colore alle pellicole, l’Eastmancolor, il procedimento a tutt’oggi più utilizzato del mondo. In rapporto al Technicolor, il procedimento Eastmancolor rappresentò una valida alternativa economica allo stadio delle riprese. Durante gli anni ’50 i film, che prima venivano girati in Technicolor, vengono ripresi in Eastmancolor. Dopo le riprese, una volta completato il montaggio, si utilizzano i negativi Eastmancolor con ben quattro matrici per stampare le copie dei film sotto il procedimento tricromico del Technicolor, con un vantaggio: col negativo Eastmancolor può essere calibrato più efficacemente il livello cromatico di ciascuno dei colori primari. L’Eastmancolor è infatti il procedimento che conferisce il colore più reale alla pellicola cinematografica, con colori nè troppo carichi, nè troppo sbiaditi, praticamente corrispondenti alla realtà visiva, già negli anni ’50 e perfezionatosi negli anni successivi.

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Questa scena, che rappresenta gli attori indiani Sunil Dutt e Sadhana nel film indiano “Waqt”(1965), è significativa delle differenti tonalità che erano in grado di dare l’Eastmancolor e il Technicolor, i due procedimenti per eccellenza utilizzati per conferire il colore alla pellicola cinematografica. A sinistra la pellicola girata in Eastmancolor, a destra quella girata in Technicolor. Quella in Eastmancolor predilige la tonalità dei chiari, mentre quella in Technicolor ha una colorazione più marcata. In Italia, in quegli anni, venne preferito l’Eastmancolor, quando la tecnologia del Ferraniacolor non venne ritenuta più adeguata all’evoluzione che il cinema italiano stava conseguendo.

Anche in Italia si iniziò a sperimentare riprese a colori sin dai primi anni ’50. Non venne utilizzato fin da subito il più sicuro Eastmancolor, ma si optò per una tecnologia tutta italiana e per un procedimento più economico, già scoperto nel campo della fotografia negli anni ’20, e adattato al cinema a partire dal 1952: il Ferraniacolor. Questo sistema tutto italiano di conferimento del colore all’immagine in movimento, venne sviluppato dalla Ferrania Technologies che aveva la sua sede a Cairo Montenotte, in provincia di Savona. Il Ferraniacolor, utilizzato solo in Italia, ha l’onore di inaugurare la stagione del colore nel cinema italiano, con la pellicola “Totò a colori”, del 1952. Racconta il direttore della fotografia del film, Tonino Delli Colli, che ci furono alcuni problemi di realizzazione perché “…con i sistemi di illuminazione che erano quelli del bianco e nero tutto diventava difficile perché, al posto di una lampada mettiamo da dieci candele, ce ne voleva una da diecimila, per far si che il sistema del Ferrania funzionasse. E quindi eravamo costretti a mettere tante lampade una vicina all’altra per avere l’enorme luce necessaria, oppure a girare gli esterni nelle ore più calde del giorno, quando il sole era allo zenit. Le luci furono bestiali, a Totò spesse volte dava fastidio tutta quella luce. Quando poi anni dopo si ammalò agli occhi, io ripensai tante volte a quelle luci, pensai che, chissà, potevano avergli provocato un primo danno alla vista”. Il Ferraniacolor conferiva alle pellicole un colore troppo sgargiante e acceso, quasi da risultare irreale, o in alcuni casi assumeva colori instabili, come accaduto per il film “Gran varietà”, del 1954, con Renato Rascel, Vittorio De Sica e Alberto Sordi. Nell’episodio di Renato Rascel si tentò con le tecniche di allora di sdoppiare l’immagine di Rascel facendo dare l’impressione che nella stessa scena recitino due persone diverse ma sulla pellicola uno dei due Rascel appare come fosse un fantasma. Sia chiaro, la tecnica dello sdoppiamento dell’immagine era già stata messa a punto e utilizzata per altri film, ma non era mai stata provata su una pellicola a colori, fu questo il problema. In seguito venne messa a punto, ma intanto, già a partire dal 1955 si stava iniziando ad abbandonare il procedimento in Ferrania in favore dell’Eastmancolor, che aveva maggiore duttilità, un costo non eccessivo e soprattutto dei colori più corrispondenti alla realtà. Con l’utilizzazione nel film “Pane, amore e…”, del 1955, con Sophia Loren e Vittorio De Sica, l’Eastmancolor convinse i produttori che quello sarebbe stato il procedimento in grado di affermare il colore nel cinema italiano, con risultati più che eccellenti. La perfezione del colore dell’Eastmancolor, verrà poi raggiunta già nel 1958, quando esce nelle sale “Venezia, la luna e tu…”, con Alberto Sordi e Marisa Allasio, dove lo spumeggiante colore dà vivacità alla pellicola, senza la minima sbavatura cromatica. E da quel momento in poi, la Ferraniacolor perse la sue egemonia, fallendo e chiudendo l’azienda già nel 1958, mentre l’Eastmancolor trovò enorme fortuna a Cinecittà, proprio nel periodo in cui questa diventò la “Hollywood sul Tevere”. A fine anni ’50 il colore arrivò ad affiancare il bianco e nero, senza dubbio, ma quest’ultimo continuava ad affascinare le platee, dal b. e n. seducente de “La dolce vita”, a quello noir de “I soliti ignoti”. Dunque gli anni ’60, vivono di una sorta di divisione del campo cinematografico in pellicole in bianco e nero e pellicole a colori, ma sembrava chiaro a tutti, che il futuro, prima o poi, sarebbe stato solo ed esclusivamente a colori, e il bianco e nero sarebbe purtroppo destinato ad estinguersi. Negli anni ’50 e ’60 a supporto di entrambe le procedure arriva il Cinemascope, del quale è utile parlarne qui. Il Cinemascope è quella particolare procedura, utilizzabile in egual modo si per il bianco e nero che per il colore, il quale  consiste nel deformare, in ripresa, le immagini e poi disanamorfizzarle in proiezione al fine di ottenere fotogrammi a largo campo visivo (2,35:1), con un conseguente gradevole effetto. Per intenderci una sorta di Alta definizione (HD) dell’epoca. Tale sistema fu brevettato negli anni cinquanta dalla 20th Century Fox ed utilizzato per la prima volta nel film “La tunica” (1953), con Richard Burton, e in Italia nel 1955 con il film “Giove in doppiopetto”, interpretato da Carlo Dapporto e Delia Scala. Ma l’invenzione del Cinemascope, invece di seppellire definitivamente il bianco e nero, ne dà nuova linfa, proprio perché adattissimo alle sue sfumature e alle sue atmosfere. L’uso del b. e n. non viene scoraggiato dalla diffusione dello spettacolare Cinemascope, e ne trae anzi una riaffermazione di forza sia negli Stati Uniti (per es., in A hatful of rain, 1957, Un cappello pieno di pioggia, di Fred Zinnemann, e in Compulsion, 1959, Frenesia del delitto, di Richard Fleischer), sia in Francia nella fantasmagoria di bianco, oro-argento e nero di L’année dernière à Marienbad (1961; L’anno scorso a Marienbad) di Alain Resnais, sia in due fra i massimi risultati fotografici italiani, entrambi del 1960, “Rocco e i suoi fratelli” di Visconti (fotografia di G. Rotunno), in cui la contrastata incisività d’immagine, i bianchi sporchi e i neri fangosi rendono quasi palpabili la città e i personaggi; e “La dolce vita” di Fellini (1960, fotografia di O. Martelli), capolavoro visionario nel quale ogni luogo notturno palpita di tonalità, bagliori e atmosfere diverse, e il giorno (per la scoperta del suicidio di Steiner) è segnato da un chiarore abbagliante. Poi quel bianco e nero finissimo del Cinemascope unito all’abito scuro a due bottoni indossato con camicia bianca e cravatta sottile nera da Marcello Mastroianni, ne fanno uno dei più straordinari risultati della storia del cinema, soprattutto da un punto di vista stilistico. Altrettanto variegata è la gamma dei toni del successivo film di Fellini, 8 ¹/₂ (1963), dove la fotografia di Gianni Di Venanzo riesce a differenziare i momenti della realtà presente dall’evanescenza di pensieri e ricordi, e dove i molti bianchi assumono intensa luminosità e significati diversi. È in questo suo periodo d’oro che il cinema italiano, alla scoperta della bellezza del Paese, non solo evita con il b. e n. ogni pericolo di oleografia, ma cattura la magia, o il carattere, di città e paesaggi illuminando forme, spazi e volumi: vanno ricordati per questo, oltre i citati, almeno tre film diretti da Antonioni, L’avventura, 1960, La notte, 1961, L’eclisse, 1962; ma anche La notte brava, 1959, di Mauro Bolognini.

gran varietà
Fino al 1957 venne utilizzata in Italia, per dare colore alle pellicole cinematografiche, la tecnologia tutta italiana del Ferraniacolor. Qui un’immagine di scena tratta dal film “Gran varietà”, del 1954, che raffigura Lea Padovani e Vittorio De Sica in scena. Come si può notare, il colore assunto dalla pellicola è un misto tra il troppo pastoso e lo sbiadito. In particolare risultava molto difficile stabilizzare il colore, se c’era troppa luce esso risultava troppo carico, viceversa se la scena era girato in condizione anche solo di minima oscurità, essa perdeva di colpo la sua pastosità. Questi problemi indussero poi i produttori ad adottare dal 1955 in poi, la più sicura e testata tecnologia dell’Eastmancolor. Del Ferraniacolor riamangono comunque quasi 20 film, nonché l’onore di aver contribuito a realizzare il primo film a colori della storia del cinema italiano, “Totò a colori”(1952), che necessitò di parecchia luce per poter essere realizzato con una cromatura di colore stabile e soddisfacente.
cinemascope
Il Cinemascope, era l’Alta definizione degli anni ’50 e ’60. Conferiva alla pellicola una spettacolarità ed una purezza di immagini, in grado di esaltare sia il bianco e nero, che il colore. In Italia arriva a partire dal 1955, il primo film ad utilizzarla fu “Giove in doppiopetto”, con Carlo Dapporto e Delia Scala.

Inevitabilmente, però, dagli anni Settanta, il colore non è più una scelta ma un obbligo, e anche per un autore acclamato come Truffaut, l’ultimo grande regista ad abbandonare il bianco e nero, arriva il momento in cui realizzare un film in b. e n. diventa molto difficile, per ragioni commerciali e quindi tecniche (fra l’altro, data la scarsità di domanda, diventano sempre meno i laboratori in grado di stampare in b. e n., e il rapporto di spesa in confronto al colore si rovescia). In Italia, a partire, da questo decennio il bianco e nero sopravvive solamente nelle scene ambientate nel passato, magari in un flash-back narrativo, come ad esempio nel film “C’eravamo tanto amati”(1974), stupendo e malinconico affresco agro-dolce di trent’anni di storia italiana dalla seconda guerra mondiale agli anni ’70. Interpretato da Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Stefano Satta Flores, gli episodi ambientati nel passato delle lotte partigiane ad inizio film, sono girate in bianco e nero, mentre il prosieguo del film è realizzato a colori.

truffaut
Francois Truffaut fu l’ultimo grande regista ad abbandonare il bianco e nero in favore del colore. Agli inizi degli anni ’70, realizzava ancora pellicole in bianco e nero, mentre i suoi più illustri colleghi, forse anche costretti dalle leggi di mercato, giravano a colori già da parecchi anni.

Insomma il colore inevitabilmente, arrivò a conquistare le platee, perché rappresentò il futuro e la novità rispetto al bianco e nero. Un cammino, però quello del colore, lento, che consentì al bianco e nero di sopravvivere ancora per parecchi anni, almeno fino alla fine degli anni ’60. Un binomio dunque, quello del bianco e nero e del colore, non una contrapposizione: il colore deve essere infatti inteso come l’evoluzione naturale del bianco e nero e del Cinema come arte, perché se il Cinema è l’arte della realtà, anche il colore doveva necessariamente ergersi ad esaltare le emozioni che solo questa Arte sa offrire in maniera così penetrante, ieri come oggi.

Domenico Palattella

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